Guadagnare di meno con un aumento di stipendio: il paradosso del drenaggio fiscale

Quando un aumento può trasformarsi in una perdita, la colpa è del drenaggio fiscale, un meccanismo tipico dei sistemi fiscali progressivi - come il nostro - ma che è sconosciuto a moltissime persone.

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Redazione

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Ricevere un aumento di stipendio, in teoria, dovrebbe sempre essere una buona notizia per un lavoratore. In pratica, però, non è sempre così. In Italia (come in altri Paesi) può accadere che, in determinate condizioni, chi riceve un aumento finisca per peggiorare la propria condizione economica.
Il motivo si chiama drenaggio fiscale, o fiscal drain.

L’esempio di Marco

Immaginiamo Marco: guadagna 950 euro netti al mese e, grazie a un bonus statale previsto per chi ha redditi inferiori ai 1.000 euro, riceve altri 100 euro. In totale, porta a casa 1.050 euro al mese.
Un giorno, però, ottiene un aumento di 75 euro. A quel punto il suo stipendio netto sale a 1.025 euro, ma perde il diritto al bonus. Risultato? Marco si ritrova a guadagnare meno di prima (1.025 invece di 1.050 euro), pur avendo ottenuto un aumento.

esempio drenaggio fiscale

(Si tratta di un esempio semplificato, utile a spiegare il meccanismo, non di cifre reali).

Inflazione, tasse e stipendi

Il drenaggio fiscale non riguarda solo i bonus. Colpisce anche chi, in un periodo di inflazione, riceve un aumento che lo fa passare allo scaglione IRPEF successivo.
L’inflazione, infatti, erode il potere d’acquisto: 1.000 euro nominali rimangono tali sulla carta, ma valgono meno nella vita reale, perché permettono di comprare meno beni e servizi rispetto al passato.

Per compensare, nei periodi ad alta inflazione i lavoratori chiedono aumenti. Ma quando questi arrivano, possono non tradursi in un miglioramento concreto, per due motivi principali:

  • l’aumento è troppo basso rispetto all’aumento dei prezzi;
  • l’aumento spinge il reddito oltre le soglie per bonus e detrazioni, oppure fa scattare l’aliquota IRPEF superiore.

L’effetto paradossale: più tasse, meno guadagni

Prendiamo un altro esempio semplificato. Marco guadagna 28.000 euro lordi l’anno e versa 8.000 euro di tasse, riuscendo a comprare 18 pere. Con l’inflazione, gli stessi 28.000 euro gli permettono di comprarne solo 15.
Per compensare, riceve un aumento di 2.000 euro e arriva a 30.000 euro lordi. Ma i 2.000 euro in più lo portano allo scaglione IRPEF successivo: ora paga 9.000 euro di tasse e con il reddito residuo riesce a comprare solo 16 pere.

Risultato? Marco guadagna di più sulla carta, ma il suo potere d’acquisto resta inferiore a quello iniziale.

Perché succede

Il problema nasce dal fatto che il sistema fiscale italiano è progressivo (chi guadagna di più paga di più), ma non è indicizzato all’inflazione. Gli scaglioni IRPEF e le soglie per bonus e detrazioni restano fissi nel tempo, anche quando i prezzi salgono.

Questo significa che, con il passare degli anni e l’aumento naturale degli stipendi, sempre più contribuenti finiscono per pagare aliquote più alte o perdere agevolazioni, senza che il loro potere d’acquisto reale sia aumentato.

L’impatto per i lavoratori italiani

Tra il 2022 e il 2024, secondo le stime, il drenaggio fiscale ha portato i lavoratori italiani a pagare circa 25 miliardi di euro in più di imposte. È lo stesso meccanismo che, negli anni, ha eroso bonus come quello introdotto dal governo Renzi (80 euro), ormai ridotto in termini reali dal peso dell’inflazione e delle soglie fiscali.

Per questo motivo, diversi economisti sottolineano come i bonus non siano lo strumento ideale per sostenere i redditi più bassi: sono costosi per lo Stato e vengono inevitabilmente erosi dal drenaggio fiscale.