Oggi gran parte delle relazioni e degli affari passa per la messaggistica, promesse di pagamento, ammissioni di debito, confessioni di tradimento o accordi familiari finiscono in chat. Uno screenshot può trasformare quei frammenti di vita digitale in una prova capace di orientare un processo civile. Pertanto, un semplice screenshot può ribaltare una causa? Sì, se rientra tra le “riproduzioni informatiche” disciplinate dall’ art. 2712 del Codice Civile.
La norma stabilisce che:
“Fotografie, copie e in generale riproduzioni meccaniche o informatiche fanno piena prova dei fatti e delle cose rappresentate fino a quando la controparte non le disconosce specificamente.”
In sostanza, una chat di WhatsApp stampata o salvata come immagine può vincolare il giudice, salvo che l’altra parte ne eccepisca l’autenticità o la provenienza.
La Corte di Cassazione ha confermato che i messaggi inviati tramite applicazioni di messaggistica istantanea rientrano a pieno titolo tra le riproduzioni informatiche e, se non eccepiti, hanno lo stesso valore probatorio di un documento scritto (Cass. civ., sez. II, sent. n. 1254/2025). Lo stesso orientamento era stato tracciato dalle Sezioni Unite, le quali hanno chiarito come il giudice possa basarsi su comunicazioni elettroniche prodotte dalla parte senza doverne verificare d’ufficio la genuinità, finché l’altra parte non le disconosca (Cass. SSUU. sent. n. 11197/2023).
Indice
E se la controparte disconosce lo screenshot?
Come detto, finché nessuno solleva obiezioni, lo screenshot di WhatsApp prodotto in giudizio costituisce piena prova. La situazione cambia se la controparte disconosce formalmente lo screen.
Per il disconoscimento, non basta un generico “non riconosco la chat”, l’eccezione deve essere circostanziata, indicando in che cosa consisterebbe la falsità o l’alterazione. Ad esempio, “non è il mio numero” oppure “il testo è stato modificato”.
Il codice di rito prevede il principio di non contestazione (art. 115 c.p.c.), in base al quale, se la controparte rimane silente, i fatti rappresentati nel documento si considerano ammessi. Invece, se la controparte eccepisce la prova, cade la presunzione di veridicità e chi ha prodotto lo screenshot deve dimostrarne l’autenticità.
A quel punto può aprirsi la procedura di verificazione:
“Si tratta di un sub-procedimento volto a stabilire se la copia corrisponde all’originale e se il contenuto è genuino.”
Il giudice può ordinare alla parte che ha prodotto la chat di esibire il dispositivo (smartphone o supporto su cui è memorizzata) oppure acquisire i file originali per analizzarne metadati, orari, destinatari, hash. Se la verifica richiede competenze tecniche, ad esempio per accertare se un messaggio sia stato alterato o se una chat sia completa, il tribunale può nominare un consulente tecnico d’ufficio (CTU) con competenze informatiche forensi.
Come depositare una chat in giudizio?
Uno degli errori più frequenti nei processi civili è limitarsi a stampare uno screenshot e allegarlo alla memoria difensiva. La stampa è ammessa, ma dal punto di vista giuridico è solo una copia analogica, cioè la riproduzione cartacea di un documento informatico. Secondo l’art. 2712 c.c. ha valore probatorio fino a disconoscimento, ma non gode di alcuna “presunzione rafforzata” di integrità. Se la controparte la eccepisce, chi l’ha prodotta dovrà dimostrare che corrisponde al messaggio originale.
Diverso è il caso del duplicato informatico conforme, disciplinato dal Codice dell’Amministrazione Digitale (D.lgs. n. 82/2005). Gli artt. 20 e 23-bis CAD prevedono che:
“Il duplicato informatico, cioè la copia ottenuta con un processo che garantisce la conformità bit per bit al file originario, abbia lo stesso valore giuridico dell’originale.”
In sostanza, esportare la chat di WhatsApp in formato digitale (.zip o .txt con i relativi media) e depositare quel file come “duplicato informatico” rafforza la prova e si tratta di un documento elettronico che gode della presunzione di integrità.
Per rendere il deposito più solido, chi produce la chat può ricorrere a strumenti tecnici e formali:
- attestazione di conformità: un avvocato o un notaio può attestare che il file esportato o la stampa è conforme all’originale presente sul dispositivo, sfruttando i poteri certificativi previsti dalla normativa sul Processo Civile Telematico (art. 16-bis D.l. n. 179/2012 e regole tecniche PCT).
- impronta hash: generare un’impronta digitale del file (SHA-256 o simile) consente di dimostrare che il documento depositato non è stato modificato dopo l’estrazione.
- copia forense o perizia informatica: quando si prevedono eccezioni di autenticità, è consigliabile acquisire la chat tramite un perito che crea un’immagine forense del dispositivo, certificando la catena di custodia e i metadati (data, ora, mittente, destinatario).
- deposito del device: in casi complessi il giudice può ordinare l’esibizione del telefono per consentire alla CTU di accedere ai dati originali.
Dall’ammissione di debito al decreto ingiuntivo
Uno dei terreni in cui le chat di WhatsApp trovano maggiore uso è il recupero crediti. Una debitore che scrive: “Ti devo ancora 2.000 euro, appena posso ti pago” equivale, sul piano giuridico, a una ricognizione di debito. Se quella conversazione non viene disconosciuta o viene poi autenticata, diventa una prova scritta sufficiente per chiedere un decreto ingiuntivo (art. 633 c.p.c.)
L’avvocato allega al ricorso monitorio lo screenshot o l’export della chat dove il debitore ammette l’esistenza del credito. Il giudice, se ritiene il documento attendibile e non contestato, può emettere l’ingiunzione senza bisogno di ulteriori prove testimoniali. Negli ultimi anni i tribunali hanno più volte ritenuto sufficiente la messaggistica digitale per fondare l’ingiunzione di pagamento, a condizione che la chat provenga chiaramente dal numero o dal profilo dell’obbligato e che non sia stata oggetto di un disconoscimento.
L’uso non si limita ai rapporti tra privati. Nei rapporti di lavoro capita spesso che un datore confermi via WhatsApp turni, straordinari o somme dovute a titolo di rimborso, anche questi messaggi possono supportare una richiesta monitoria o una causa di pagamento differenze retributive. Allo stesso modo, nelle separazioni e nelle cause familiari le chat che documentano patti su mantenimento o spese straordinarie per i figli vengono prodotte per ottenere un provvedimento esecutivo o rafforzare una domanda giudiziale.
Tutela privacy : come non bruciarsi la prova digitale
Chi produce una chat in giudizio deve pensare non solo alla validità probatoria, ma anche alla tutela dei dati personali e alla tenuta tecnica della prova. È un equilibrio delicato, un file mal gestito può essere inutilizzabile o addirittura violare la privacy di terzi.
In primo luogo occorre mostrare solo ciò che serve. L’art. 5 del Reg UE 2016/679 (GDPR) impone il principio di minimizzazione:
“Allegare un’intera conversazione piena di dati sensibili, numeri di telefono estranei o foto private non pertinenti significa esporre informazioni inutili.”
Meglio oscurare i passaggi irrilevanti (ad esempio con bande nere o redazioni digitali) lasciando intatti data, ora, mittente e contenuto rilevante ai fini del giudizio.
In secondo luogo, mai manipolare o ricostruire. Montaggi, tagli sospetti o editing grafico possono mettere in dubbio l’integrità dello screenshot e dare alla controparte un appiglio per disconoscerlo.
Occorre, poi, custodire il file originale. Chi deposita un documento informatico deve poter dimostrare che non è stato modificato dopo la creazione, in tal caso si parla della cosiddetta catena di custodia digitale. Significa conservare l’export integrale della chat in formato nativo, registrare la data di creazione e calcolare un hash crittografico (SHA-256 o simile). Se in seguito viene nominato un consulente tecnico d’ufficio (CTU), questi potrà verificare che il file prodotto è identico a quello estratto in origine.