Abbandono del tetto coniugale: quando comporta l’addebito?

L’allontanamento ingiustificato dalla casa coniugale non è più reato, ma può portare all’addebito della separazione, alla perdita del mantenimento e incidere su figli e diritti ereditari.

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Giorgia Dumitrascu

Avvocato civilista

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Quando Nora, nell’ultimo atto di Casa di Bambola di Ibsen, decide di uscire dalla casa coniugale e chiude la porta dietro di sé, non è solo teatro. Quel gesto segna la rottura della convivenza come spazio materiale e simbolico del matrimonio. L’idea che l’abbandono del tetto coniugale abbia conseguenze non è nuova: nel diritto romano, bastava il trinoctium, tre notti fuori dalla casa, per impedire che la moglie cadesse sotto la manus del marito. La convivenza era il cuore del matrimonio, e lo è ancora oggi.

Che cos’è l’abbandono del tetto coniugale?

L’abbandono del tetto coniugale è il comportamento di un coniuge che interrompe la convivenza in modo volontario, stabile e senza accordo. È la rottura unilaterale del dovere di coabitazione, previsto dall’articolo 143 del Codice civile, che impone assistenza morale e materiale, collaborazione e residenza comune.

“Si tratta di un allontanamento definitivo o comunque non temporaneo che segna la fine della comunione domestica e non di un breve allontanamento”.

La giurisprudenza considera abbandono solo il trasferimento che presenta tre elementi:

  • volontarietà;
  • durata tale da interrompere la vita coniugale;
  • assenza di un consenso o di una giusta causa.

Non c’è un numero di giorni fisso per far scattare l’abbandono del tetto coniugale. Tuttavia, un soggiorno di qualche giorno altrove, dovuto a tensioni familiari o alla necessità di “prendere distanza”, non è qualificabile come abbandono, perché manca l’intento di interrompere la convivenza.
I coniugi possono vivere separati solo con l’autorizzazione del giudice con i provvedimenti provvisori e urgenti in sede di separazione personale (artt. 473-bis e seguenti c.p.c.). Un allontanamento non autorizzato può determinare conseguenze sul piano civile, dall’addebito alla possibilità di un risarcimento del danno se la condotta provoca pregiudizi concreti all’altro coniuge.

Abbandono del tetto coniugale: esiste ancora come reato?

L’abbandono del tetto coniugale non è più reato e non comporta in automatico conseguenze penali. Tuttavia, lasciare la casa senza accordo continua a essere un comportamento che può incidere sull’addebito della separazione e integrare altri reati legati alla famiglia.
Non è l’allontanamento in sé a costituire reato, ma le condotte che possono accompagnarlo.
L’art. 570 c.p. si applica quando chi se ne va smette di contribuire ai mezzi di sussistenza del coniuge o dei figli, integrando una violazione degli obblighi di assistenza.
L’art. 572 c.p., invece, riguarda i maltrattamenti in famiglia, ipotesi che presuppone comportamenti violenti o vessatori, non il semplice trasferimento dall’abitazione.

Occorre chiarire il ruolo della querela. Sporgere una querela o un esposto ai Carabinieri o alla Procura non produce effetti automatici sulla separazione, non fa scattare l’addebito della separazione. La querela serve ad attivare le indagini su condotte penalmente rilevanti, mentre l’addebito viene deciso dal giudice civile, che valuta se l’allontanamento è stato ingiustificato e se ha causato la crisi coniugale. Nulla impedisce che i due percorsi si intreccino, ma è il giudizio civile a stabilire le conseguenze sulla separazione e sui diritti economici.

“La querela è utile se l’allontanamento si accompagna a omissioni o violenze; l’addebito, invece, si fonda sull’analisi della responsabilità nella rottura della convivenza”.

Quando l’abbandono del tetto coniugale comporta l’addebito della separazione

L’addebito scatta solo se l’allontanamento è la causa della crisi coniugale e non la sua conseguenza. La Cassazione ribadisce che l’abbandono del tetto coniugale incide se interrompe una convivenza ancora in corso e non è sorretto da una giusta causa. In questi casi, l’allontanamento integra una violazione dei doveri coniugali e determina la responsabilità della rottura.
Se un coniuge dichiara di “non sopportare più le liti” e decide di andarsene senza un tentativo di mediazione o di separazione legale, l’addebito è probabile perché l’allontanamento appare come origine della crisi. Diversamente, se chi lascia l’abitazione lo fa perché il partner ha commesso un tradimento documentato, o per tutelarsi da comportamenti aggressivi, l’addebito può escludersi, la scelta di allontanarsi è la conseguenza di una crisi già esplosa e non può essere sanzionata.

Quando non c’è addebito anche se uno lascia la casa?

L’abbandono del tetto coniugale non comporta l’addebito se l’allontanamento è sorretto da una giusta causa riconosciuta dal giudice.

“Se la convivenza è già divenuta intollerabile, l’uscita dall’abitazione non è la causa della crisi, non può essere sanzionata”.

Le ipotesi tipiche in cui il giudice esclude l’addebito riguardano:

  • maltrattamenti, violenza domestica o minacce;
  • conflittualità grave e già esplosa;
  • tradimento conclamato del partner;
  • tutela della salute psico-fisica propria o dei figli minorenni.

In queste situazioni l’allontanamento è considerato una forma di tutela e non una violazione dei doveri coniugali.

“Chi si allontana per sottrarsi a comportamenti lesivi o per salvaguardare i minori non perde i diritti e non subisce l’addebito”.

In ogni caso, l’onere di provare la giusta causa ricade su chi si è allontanato, occorrono elementi oggettivi, testimonianze, referti o documentazione idonea a dimostrare il contesto che ha reso impossibile la convivenza.

Effetti economici: mantenimento, danno e diritti ereditari

Chi viene ritenuto responsabile della fine della convivenza può perdere il diritto all’assegno di mantenimento, perché la sua condotta viola i doveri coniugali e contribuisce alla rottura del rapporto. Questo effetto riguarda solo i coniugi: gli obblighi verso i figli restano invariati, e il contributo per il loro mantenimento continua a essere dovuto.
Chi è ritenuto responsabile può inoltre essere condannato a sostenere le spese processuali e, nei casi più gravi, risarcire i danni patrimoniali subiti dall’altro coniuge se l’allontanamento ha generato costi o pregiudizi documentabili.
Un altro effetto riguarda i diritti ereditari. Infatti, il coniuge separato conserva la qualità di erede legittimario (art. 585 c.c.). Tuttavia, se la separazione è pronunciata con addebito, il coniuge responsabile perde i diritti successori e non partecipa alla successione.

Abbandono del tetto coniugale con figli minorenni

Se l’allontanamento riguarda una famiglia con figli minorenni, l’interesse del minore è prioritario, è il criterio che guida ogni decisione del giudice (art. 337-ter c.c.). Per questo l’abbandono della casa familiare è valutato non solo in rapporto ai doveri coniugali, ma soprattutto rispetto alla continuità affettiva, educativa e materiale dei figli.
L’uscita dall’abitazione può peggiorare la posizione genitoriale se è improvvisa, ingiustificata o lascia i figli senza riferimenti. In questi casi, il giudice può considerare il gesto un indice di scarsa capacità di cura.

“Un allontanamento improvviso, lasciando i figli nell’abitazione senza informare l’altro genitore o senza una cornice di tutela, espone a un rischio elevato di addebito e incidere sull’affidamento”.

Diverso è il caso in cui il genitore si allontana per tutelarsi da violenza o per salvaguardare i minori. Qui il gesto non è interpretato come abbandono, ma come forma di tutela, e non determina conseguenze negative sulla responsabilità genitoriale.
Quanto alla casa familiare, l’assegnazione resta al genitore che convive stabilmente con i figli, indipendentemente dalla proprietà dell’immobile. La continuità domestica e scolastica prevale sulle ragioni patrimoniali: l’obiettivo è evitare che l’allontanamento produca ulteriori traumi ai minori.

Come si dimostra l’abbandono del tetto coniugale?

Dimostrare l’abbandono del tetto coniugale significa provare che l’allontanamento non è stato un episodio momentaneo, ma una scelta stabile, volontaria e priva di accordo. L’onere della prova ricade su chi lo contesta e riguarda la condotta, cioè l’effettiva uscita dall’abitazione e i suoi effetti sulla convivenza e sulla crisi coniugale.

Le evidenze più usate in giudizio sono quelle che ricostruiscono la volontà di interrompere la vita familiare e la durata dell’allontanamento. Messaggi ed email possono documentare la decisione di trasferirsi altrove o il rifiuto di rientrare. I verbali delle forze dell’ordine attestano interventi legati a conflitti o allontanamenti improvvisi. Le testimonianze di vicini, parenti o persone che hanno assistito ai fatti aiutano a ricostruire il contesto e la durata dell’abbandono. Anche la documentazione relativa a un nuovo alloggio, come un contratto di locazione o la residenza anagrafica presso un’altra abitazione, conferma la stabilità dell’allontanamento.

Invece, se l’uscita è collegata a ragioni di tutela (ad esempio per tutelarsi da violenza o per esigenze di salute), certificazioni mediche, referti e segnalazioni alle autorità possono dimostrare che l’allontanamento era necessario.