Il concordato preventivo è un flop perché gli autonomi non evadono

Secondo la Cgia il fallimento del concordato preventivo è dovuto al fatto che i liberi professionisti non evadono quanto crede lo Stato

Foto di Matteo Runchi

Matteo Runchi

Editor esperto di economia e attualità

Redattore esperto di tecnologia e esteri, scrive di attualità, cronaca ed economia

Pubblicato: 9 Novembre 2024 15:19

La Cgia di Mestre avanza un’ipotesi sulla ragione per cui il concordato preventivo biennale non è stato adottato nella maniera ampia che il Governo si aspettava. L’associazione degli artigiani e delle piccole imprese infatti reputa che i dati dello Stato che stimano l’evasione fiscale dei lavoratori autonomi siano errati e che in realtà le partite Iva evadono molto meno di quanto si pensi.

I calcoli del “tax gap” ipotizzano infatti che la tassa più evasa in assoluto, l’Irpef dei lavoratori autonomi, venga evasa per quasi il 70% del suo valore. Questo toglierebbe allo Stato quasi 30 miliardi di euro all’anno. La Cgia critica queste cifre, ma l’analisi presenta alcuni problemi relativi soprattutto al periodo di riferimento dei dati disponibili.

Il flop del concordato preventivo biennale

Il Governo ha pubblicizzato molto nell’ultimo anno il concordato preventivo biennale per i lavoratori autonomi e gli imprenditori con ricavi annui inferiori a 5,1 milioni di euro. Si tratta di un accordo tra contribuente e fisco, nel quale il primo dichiara una stima delle sue entrate e concorda con lo Stato le tasse da pagare per i due anni successivi. In cambio lo Stato promette di ridurre fortemente i controlli fiscali.

L’obiettivo del Governo con questa norma era duplice. Da una parte, alcuni componenti della maggioranza volevano facilitare il pagamento delle tasse a una categoria che compone il proprio elettorato, i lavoratori autonomi, garantendo loro anche meno controlli fiscali. Dall’altra c’era la volontà, tramite questo concordato, di far emergere redditi non dichiarati in passato, comportando quindi un momentaneo aumento delle entrate per l’erario.

Secondo i dati preliminari, ad aderire a questo concordato sarebbero state circa 500mila partite Iva, tra quelle a regime ordinario che hanno potuto accedere a quello biennale e i forfettari, che hanno dovuto limitarsi a un concordato annuale. La platea potenziale era di 4,5 milioni di persone. A fronte di una stima di guadagno per lo Stato di 2 miliardi di euro, le entrate, secondo quanto riportato dal viceministro Leo, saranno soltanto di 1,3 miliardi.

Duro il giudizio della Cgia di Mestre su questa norma: “Nessun altro provvedimento di compliance presentato in passato era stato ‘modellato’ su misura come questo, in particolare per chi sistematicamente ha la cattiva ‘abitudine’ di pagare poche tasse. In via subliminale, il ‘patto’ proposto dal fisco era basato su questi presupposti: il contribuente dichiara per il biennio 2024-2025 qualcosa in più e conseguentemente paga un po’ più di quanto ha versato in passato, consentendo all’erario di incassare immediatamente la liquidità necessaria per coprire la riduzione delle aliquote Irpef al cosiddetto ceto medio” scrive il Centro studi dell’associazione nel suo rapporto.

I conti del ministero e le critiche della Cgia

Secondo il ministero dell’Economia, che ogni anno pubblica un report sull’economia sommersa e quindi sul livello dell’evasione in Italia, l’evasione dell’Irpef da lavoro autonomo e impresa è pari a 29,5 miliardi di euro. I dati però sono del 2021 e quindi pesantemente influenzati dalla pandemia da Covid-19. Nel 2019 l’evasione stimata da parte degli autonomi per la sola Irpef era di 32,5 miliardi di euro e calava da anni al ritmo di circa 500 milioni di euro circa per ogni rilevazione.

Stime errate secondo Cgia: “Se, come sostengono i tecnici del Mef, queste attività evadono quasi il 70 per cento dell’Irpef, quanto dovrebbero dichiarare se fossero ligi alle richieste dell’erario? Il 120 per cento in più, ovvero poco più di 74 mila euro all’anno. Ora, come possono ‘raggiungere’ nella realtà una soglia di reddito così elevata se, come abbiamo appena detto, la stragrande maggioranza lavora da solo, quindi è poco più di un lavoratore dipendente, e al massimo può lavorare 10-12 ore al giorno?” si chiede il Centro studi.

Il calcolo del Centro studi di Cgia si limita al reddito di artigiani e commercianti del Nord, come dichiarato dallo stesso report: “Secondo le dichiarazioni dei redditi dei lavoratori autonomi in contabilità semplificata del Nord (praticamente artigiani e commercianti), nell’anno di imposta 2021 hanno dichiarato mediamente 33 mila euro lordi.  Segnaliamo che oltre il 70 per cento di queste partite Iva è composto dal solo titolare dell’azienda (in altre parole lavora da solo).” Il dato nazionale sul reddito da lavoro autonomo derivato dalle dichiarazioni Irpef delle partite Iva nel 2021 era di quasi 53mila euro lordi all’anno.

Il dato con cui paragona queste cifre è però nazionale e non si limita a commercianti e artigiani. Come si può leggere nella nota che spiega la metodologia utilizzata dal ministero, che Cgia definisce arzigogolata: “Si assume come platea di riferimento dei contribuenti assoggettati all’IRES e all’IRPEF da lavoro autonomo e impresa, l’insieme dei soggetti tenuti al pagamento dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP),” una scelta, spiega la nota, dovuta alla tipologia di dati disponibili.

Perché il concordato ha fallito?

Da questo ragionamento, Cgia deduce che la ragione della bassa adesione al concordato preventivo sta in una sopravvalutazione da parte dello Stato dell’evasione fiscale sull’Irpef da lavoro autonomo: “Considerato che gli imprenditori e i lavoratori autonomi non sono degli stupidi, vuoi vedere che, nonostante il Cpb fosse particolarmente ‘vantaggioso’, l’adesione è stata nettamente inferiore alle attese, poiché la propensione all’evasione fiscale di queste categorie sarebbe, secondo la Cgia, molto al di sotto delle stime, anche di quelle elaborate dal Mef?” dichiara il report.

Una delle principali critiche al concordato è quella che non presenta un’alternativa appetibile a chi già non paga del tutto o in parte le tasse. Secondo diversi osservatori infatti, l’idea di pagare di più per evitare controlli è poco invitante se, già in partenza, i controlli sono relativamente pochi e non si corre il rischio che il fisco scopra la propria evasione fiscale. La Cgia ha però una risposta anche per questo argomento.

“Nel 2023 tra le lettere di compliance (2.681.147), gli accertamenti, le verifiche e i controlli eseguiti dall’Agenzia delle Entrate e dalla Guardia di Finanza in materia fiscale sono state interessate poco più di 3.510.000 partite Iva e imprese. Sempre nello stesso anno, in materia contrattualistica, sicurezza sul lavoro o assicurativa l’attività eseguita dall’Ispettorato del lavoro, dall’Inps e dall’Inail ha toccato i 260.440 controlli” recita il report.