Cina nella bufera: espianto di organi su detenuti ancora in vita

Uno studio effettuato nel mese di aprile e rilanciato negli ultimi giorni dal Wall Street Journal rivelerebbe le pratiche illecite messe in atto a Pechino

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Redazione

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Una notizia che ha dell’incredibile arriva direttamente dalla Cina e – nel caso venisse confermata – rischia di scatenare una vera e propria bufera attorno ai ranghi dirigenziali di Pechino e a tutto il sistema sanitario del Dragone, già duramente sotto attacco durante questi due anni di emergenza pandemica per l’ipotesi secondo cui il coronavirus sarebbe stato creato in laboratorio per mano di un equipe di scienziati operativi proprio a Wuhan.

Cina, ipotesi da incubo sui trapianti di organi: lo studio americano

Oggi l’oggetto dell’indiscrezione non è più l’origine ancora incerta del Covid-19, ma un documento che ha iniziato a circolare prima negli Stati Uniti e poi il tutto il mondo durante gli ultimi mesi. Uno studio accademico pubblicato ai primi di aprile dalla rivista American Journal of Transplantation ha infatti documentato come in un periodo di 35 anni (compreso tra il 1980 e il 2015), per ben 71 volte i chirurghi cinesi abbiano violato la regola sulle donazioni di organi dopo la morte.

C’è di più: dai documenti risulta come in diversi casi l’avvenuto decesso cerebrale non sia stato verificato prima dell’espianto ma addirittura le cose sarebbero andate oltre e la causa della morte delle 71 persone (tutte in stato di detenzione all’interno dei carceri cinesi) sarebbe stata proprio l’estrazione del cuore.

Le oscure pratiche di Pechino sull’espianto di organi

Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal – che ha citato gli stessi autori di quel lavoro nel momento della pubblicazione avvenuta mercoledì 1 giugno – le pratiche denunciate dallo studio scientifico diffuso due mesi fa – che Pechino nega con forza – sarebbero in realtà una prassi corrente in Cina anche in tempi recenti. Lo studio accademico pubblicato dal’American Journal of Transplantation ha analizzato ben 125.000 pratiche di donazione tra cui i 71 casi ufficiali di trapianti di organi. A condurlo sono stati l’israeliano Jacob Lavee, chirurgo e direttore dei trapianti dell’ospedale di Tel Aviv, e lo scienziato australiano Matthew Robertson.

Analizzando i dati fra il 1980 e il 2015, i due ricercatori hanno concluso che i chirurghi cinesi avrebbero violato la regola internazionale sulle donazioni dopo la morte in maniera sistematica, documentata per ben 71 volte nell’arco di 35 anni in 35 ospedali sparsi in 33 città di 15 province cinesi.

Le parole degli scienziati sull’orribile metodo messo in atto in Cina

Secondo il professor Jacob Lavee questa sarebbe la cosiddetta “pistola fumante” che accenderebbe i riflettori sugli espianti illegali compiuti in Cina, fino ad allora sospettati e denunciati ma non suffragati da prove. In base a quanto ha dichiarato in queste ore, la scoperta “proverebbe che non si tratta di casi isolati o temporanei, ma di una precisa scelta politica“.

L’altro autore della ricerca, Matthew Robertson, si è spinto oltre, arrivando a dare per assodato “la rimozione del cuore nell’espianto deve essere stata la causa diretta della morte del donatore. Poiché questi donatori di organi possono solo essere stati dei detenuti, i risultati della nostra ricerca suggeriscono con forza che medici nella repubblica popolare cinese hanno partecipato attivamente a delle vere e proprie esecuzioni di massa espiantando il cuore”.

Nell’articolo del Wall Street Journal, i due ricercatori hanno infine aggiunto anche che questi 71 casi costituirebbero una “piccolissima parte di una grande popolazione nascosta“: infatti, secondo la loro tesi, “la maggior parte dei referti sui trapianti messi in atto non dice nulla di come sia stato trattato il donatore“.