Caporalato nella moda, il Governo salva le maison con uno “scudo penale”

La certificazione volontaria della filiera divide imprese e sindacati tra chi ne è soddisfatto e chi denuncia il rischio di impunità

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Giorgia Bonamoneta

Giornalista

Nata ad Anzio, dopo la laurea in Editoria e Scrittura e un periodo in Belgio, ha iniziato a scrivere di attualità, geopolitica, lavoro e giovani.

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Il disegno di legge sulle piccole e medie imprese propone una certificazione volontaria di conformità della filiera. Dal settore arriva soddisfazione e si parla di “tutela del made in Italy”, mentre dall’altra parte organizzazioni, sindacati e parte civile fanno notare come più che una tutela sia un tradimento del made in Italy. Il motivo sarebbe lo “scudo penale” previsto dall’articolo 30 del disegno di legge, che esclude i grandi marchi dalla responsabilità amministrativa nei casi di illeciti commessi lungo la filiera. Vengono in mente i più recenti casi di accusa di caporalato a Tod’s, ma anche ad Armani e Valentino, per citarne alcuni.

L’emendamento, criticano i sindacati, prevede una certificazione unica come “filiera della moda certificata”, ottenuta su base volontaria, che permetterà loro di avere un’etichetta a fini promozionali e di marketing, ma anche di restare esclusi in tema di responsabilità. Sindacati, opposizioni e associazioni del settore l’hanno definito “scudo penale”, ma anche un modo per aggirare le azioni della magistratura.

Ddl sulle Pmi: ok a certificazione volontaria

Lo scorso maggio, il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha promosso un disegno di legge sulle piccole e medie imprese. È giunta infine l’approvazione a fine ottobre da parte del Senato.

Il disegno di legge, che deve tornare alla Camera, prevede su carta di tutelare e sviluppare le micro, piccole e medie imprese. Inserisce inoltre tutele per la filiera della moda e del tessile-abbigliamento attraverso la certificazione su base volontaria. Viene così infatti introdotta la certificazione di conformità in materia di lavoro, fisco e sicurezza. Questa dovrebbe essere una certificazione dalla capofila fino ai fornitori e sub-fornitori.

Si tratta di una certificazione su base volontaria che, sempre secondo il disegno di legge, dovrebbe garantire alle aziende capofila strumenti efficaci allo scopo di prevenire abusi e irregolarità.

Per ottenere la certificazione sarà necessario essere in possesso dei seguenti requisiti:

  • assenza di condanne penali negli ultimi cinque anni per titolari o amministratori;
  • regolarità contributiva e fiscale;
  • rispetto delle norme a tutela dei lavoratori in ogni fase della filiera.

Una volta fatta richiesta per la certificazione, i requisiti saranno sottoposti al controllo da parte di enti abilitati. Se superano i controlli, le aziende potranno ottenere la dicitura “filiera della moda certificata”. Sarà inoltre istituito un registro pubblico delle certificazioni che riunirà tutte le aziende virtuose.

Le critiche per lo “scudo penale”

Secondo le associazioni di categoria, come quelle iscritte nella campagna “No caporalato made in Italy”, il disegno di legge permetterebbe alle grandi aziende di presentarsi come innocenti di fronte alla giustizia.

Francesca Ciuffi di Sudd Cobas dichiara:

L’idea di risolvere il caporalato attraverso le certificazioni è del tutto fallimentare. Negli anni abbiamo riscontrato più di un caso di sfruttamento in aziende certificate.

Secondo Debora Lucchetti, coordinatrice della campagna “Abiti Puliti”, questa certificazione renderà più difficili le indagini (come quelle che hanno portato all’iscrizione nel registro degli indagati di  tre manager di Tod’s) e garantirà l’impunità ai soggetti più forti, ovvero i marchi committenti.

Un altro dubbio è sull’affidabilità degli enti certificatori. Anche se il ministero delle Imprese e del Made in Italy entrerà in gioco in maniera diretta, si parla di una certificazione del tutto cartolare, ovvero una documentazione che attesta chi rispetta la legge in materia contributiva, fiscale e giuslavoristica. “In teoria – prosegue Lucchetti – una certificazione che giustifica l’ovvio, e che anzi depotenzia la legge”.