Mentre i russi ammassano missili negli aeroporti per nuovi e più massicci attacchi, l’Ucraina deve soffrire anche l’incognita dell’elezione di Donald Trump. L’incertezza e, anzi, i nefasti presagi che la futura presidenza americana gettano sul conflitto si concretizzano nella celebrata vicinanza fra il tycoon e Vladimir Putin. Ma non solo.
Secondo le agenzie russe – al netto della consueta propaganda – gli apparati statunitensi starebbero lavorando allo svolgimento di elezioni in Ucraina per eliminare il “presuntuoso e arrogante” presidente Zelensky. La retorica del Cremlino è quella che è, ma il substrato strategico di questo programma è decisamente verosimile. Cerchiamo di capire perché.
Elezioni in Ucraina e rimozione di Zelensky
Il piano statunitense per il futuro del Paese invaso passa dunque per la rimozione di Volodymyr Zelensky. Era prevedibile. Anzi, inevitabile. Perché Zelensky rappresenta la punta di lancia del sentimento anti-russo all’interno del cuscinetto più strategico per Mosca. L’Ucraina è un territorio esterno al cuore della Federazione, in cui difendersi dalle invasioni straniere. Ora che abbiamo imparato (ricordato) che il resto del mondo non ha mai smesso di fare la guerra, capiamo quanto sia moderna l’idea di profondità difensiva. Non è risiko, ma la realtà: la Russia vuole l’Ucraina, non necessariamente in maniera territoriale ma anche solo politica, per allontanare il fiato sul collo soffiato dagli Usa tramite le loro creazioni Nato e Ue. Donald Trump ne è pienamente conscio al pari di Joe Biden, ma propone una ricetta decisamente diversa dal suo predecessore alla Casa Bianca.
Secondo il servizio d’intelligence estera russo (Svr), l’intenzione russo-americana sarebbe quella di sostituire l’attuale leadership ucraina con metodi “legittimi”. L’ipotesi più gettonata prevede elezioni presidenziali e parlamentari nel 2025, anche se il conflitto con la Russia dovesse essere ancora in corso. La nomina dei candidati avverrebbe “in accordo con il Dipartimento di Stato americano, che selezionerà le organizzazioni pubbliche locali per il monitoraggio delle elezioni”. Lato americano, le notizie trapelate dagli 007 russi hanno dato adito a uscite poco eleganti. Come quella di Donald Trump Junior, figlio del presidente eletto, il quale ha preso in giro Zelensky senza mezze misure: “Mancano 38 giorni alla perdita della tua paghetta”. Dove 38 giorni sono la distanza temporale che ci separa dall’insediamento di Trump senior, ovviamente. Secondo l’Svr russo, il Dipartimento di Stato americano avrebbe perfino iniziato a studiare l’inizio della campagna elettorale in Ucraina, pianificando anche di concordare la lista dei candidati.
Ma che fine farà Zelensky? Sicuramente non verrà relegato nell’ombra. Come successo altre volte in passato, sarà trasferito ad altro ufficio o, meglio, rimcompensato ampiamente con mansioni meno in vista ma più remunerative direttamente dall’amministrazione Usa. In modo da avere pronta un’arma da rimettere in gioco nel momento in cui l’apertura alle richieste russe non abbia dato i frutti sperati. Atroce, ma i meccanismi basilari delle tregue sono questi.
L’Ucraina dovrà rinunciare alla Crimea
Da quasi tre anni ormai è chiaro che qualunque negoziato che porti a una pace debba passare dal riconoscimento russo dei territori annessi. Crimea in primis, inglobata unilateralmente da Mosca già dieci anni fa, nel 2014, senza colpo ferire. Effetto della retorica russa secondo cui la penisola sul Mar Nero è stata “regalata” al popolo ucraino, inteso come fratello minore della grande famiglia russa, da una “mossa sconsiderata” da parte di Lenin prima e Krusciov poi. La tattica russa fin dall’inizio delle ostilità è stata quella di tagliare a Kiev l’accesso al mare, conquistando l’intera fascia di territorio che va dal Donbass a Odessa, considerando come perno imprescindibile appunto la Crimea.
La nuova amministrazione Trump chiederà a Zelensky di fornire una “visione realistica per la pace”, fornendo un piano fatto di pochi punti salienti. Secondo Bryan Lanza, stratega del Partito Repubblicano e consigliere senior del tycoon, se il presidente ucraino “si presenta al tavolo e dice che possiamo avere la pace solo conservando la sovranità sulla Crimea, dimostra che non è serio“. Rincarando la dose: “Quando Zelensky dice che fermeremo i combattimenti solo quando la Crimea sarà restituita, abbiamo una notizia per lui: la Crimea è persa. E se questa è la vostra priorità, riavere la Crimea con l’intervento dei soldati americani, rimarrete soli”. In un’intervista alla Bbc, Lanza lascia intendere che l’amministrazione Trump si impegnerà sul raggiungimento di un armistizio, piuttosto che sull’aiuto a Kiev per riconquistare i territori occupati dal nemico.
Cosa vogliono gli Usa con Trump alla Casa Bianca
Ma come fa il Cremlino a sapere cosa vuole fare Washington? E perché ne parla così apertamente, se neanche Washington lo ha fatto? Sarà sicuramente tutto falso e gonfiato come al solito, no? Non tutto, no. Come la Russia, che seppur in crisi resta una potenza demografica e industriale, anche gli Usa vogliono congelare la guerra in Ucraina. O, meglio, diminuire l’esposizione sul fronte europeo, lasciando agli Stati Ue l’incombenza di armare e sostenere Kiev. Il trionfo di Trump su Kamala Harris ha evidenziato proprio la predominanza di un’America stanca di accollarsi la salvaguardia e le guerre degli altri popoli. Un’America sovraesposta su più fronti che chiede di mantenere l’impero, inestinguibile per semplice schiocco di dita e men che meno da un presidente, ma al contempo di ridurre l’impegno globale per concentrarsi su economia e immigrazione interne. In altre parole: vogliamo la gloria, ma non vogliamo più morire per mantenerla. D’altronde, abbiamo già fatto tanto.
In generale, sul caso ucraino, gli Stati Uniti vogliono tenere impegnata la Russia in un conflitto che la distrae da più disastrosi propositi. Al contempo, non vogliono che Mosca venga sconfitta e umiliata, in quanto finirebbero preda del caos interno (come la Storia ci insegna) e delle grinfie di una Cina che a quel punto si rinforzerebbe enormemente. Questo stato di cose spiega l’approccio molto retorico e poco pratico che gli Usa hanno imbastito nei confronti di Kiev. Miliardi e miliardi di aiuti, d’accordo, ma soprattutto per permettere agli ucraini di acquistare armi da aziende europee e statunitensi e per tenere in piedi uno Stato burocratico che è praticamente fallito. Confermando che la finanza è arma imperiale per antonomasia.
La guerra in Ucraina non finirà tanto presto. Forse mai, visti gli interessi esistenziali in gioco per entrambi i Paesi in conflitto. Non sarà un pezzo di carta a determinare i destini di due popoli. Non lo è mai stato nella Storia. Un’Ucraina fuori dalla Nato ma vicina politicamente ed economicamente all’Unione europea migliorerebbe la postura della Russia, riducendone l’aggressività almeno potenziale e retorica. A quel punto l’Ucraina diventerebbe affare dell’Europa, con tutte le conseguenze del caso. Paesi avversi per Dna alla Russia, come Polonia e Repubbliche Baltiche, si troverebbero con eserciti potenziati e libertà di manovra. Dall’altro lato, nazioni abituate a dettare le linee guida comunitarie come Germania e Francia si sentirebbero messe all’angolo, alimentando l’incertezza in un continente che gli Usa hanno faticato molto a pacificare.
La Russia apre alla pace, ma ammassa 50mila soldati pronti alla guerra
Nel frattempo Mosca non sta certo a guardare gli eventi dalla finestra. Oltre a smentire la presunta telefonata fra Donald Trump e Vladimir Putin, la Russia ha ribadito di essere aperta alla pace ma anche di restare antagonista degli Stati Uniti. Lo spostamento del focus sulla nuova amministrazione non distrae il Cremlino, che sa benissimo che il principale timore di Washington sia la cooperazione della Federazione con altre potenze rivali come Cina e Iran. In quest’ottica possiamo leggere meglio i fantomatici “spiragli” di pace in Ucraina e i “segnali positivi” associati alla nuova America trumpiana. Mentre sul terreno infuria invece la battaglia di droni e un’armata di soldati di Mosca si prepara a riconquistare il territorio perso nell’oblast russo di Kursk.
Il prezzo di sangue è drammatico. L’intelligence britannica stima siano 700mila i soldati del Cremlino uccisi o feriti dall’inizio della guerra, mentre Mosca rivendica l’uccisione di oltre mille militari ucraini in meno di 24 ore. E altro sangue scorrerà presto nel Kursk, dove i russi hanno ammassato una forza d’assalto di 50mila uomini, compresi i militari nordcoreani inviati da Pyongyang, che si prepara all’offensiva contro le truppe ucraine. Da allora i russi si sono limitati a contenere gli attacchi, senza lanciare una vera e propria operazione di terra.
Fonti americane e ucraine hanno rivelato al New York Times che l’attacco sarebbe imminente, forse già “nei prossimi giorni”. Verosimilmente Mosca proseguirà invece la guerra di logoramento e la sua lenta ma inesorabile avanzata nel Donbass, per cementare il fronte e tagliare un terzo d’Ucraina in vista dei negoziati. Facendo leva inoltre sulla stanchezza e sul sentimento di migliaia di ucraini ostili ai russi invasori, ma molto più adirati con Zelensky e Occidente per il sangue popolare che continuano a far scorrere senza impegnarsi davvero negli aiuti o nell’azione decisiva. L’armata dei 50mila russi non ha tuttavia intaccato il dispiegamento russo nell’est ucraino. I nordcoreani, che si stanno addestrando all’uso di artiglieria e manovre tattiche di fanteria, sono dotati di armi e uniforme russe. Sarebbero 10mila secondo le ultime stime dell’intelligence occidentale.
Dall’altro lato ottobre è stato il peggior mese per la Russia in termini di vittime dall’inizio della guerra. L’ammiraglio Tony Radakin, capo di Stato maggiore della difesa britannica, ha affermato che le forze di Mosca hanno subito una media di circa 1.500 morti o feriti “ogni singolo giorno”.