Quanto tempo hanno i lavoratori dipendenti per contestare un licenziamento che ritengono ingiusto? A chiarirlo ulteriormente ci ha pensato, in questi giorni, la Corte Costituzionale con una sentenza – la n. 111 – che, a particolari condizioni, estende la portata del diritto di impugnazione, se bersaglio del recesso è un lavoratore in stato di incapacità e – quindi – con gravi problematiche di salute che ne minano la forza di volontà.
Vediamo allora in sintesi la vicenda e la decisione della Consulta, cercando di capire perché è importante per una pluralità di possibili situazioni concrete.
Indice
Il caso pratico, l’incapacità naturale sopravvenuta e la questione di legittimità costituzionale
Una dipendente a cui era stato inflitto un licenziamento disciplinare, si era trovata – al momento della del ricevimento della lettera di recesso – in uno stato depressivo così grave da necessitare un TSO. Conseguentemente, non ha aveva avuto tempo materiale per comprendere la portata dell’atto, né – tanto meno – per impugnare (stragiudizialmente) la decisione dell’azienda con atto scritto, entro il termine di legge pari a 60 giorni.
La disputa giunse fino alla Corte di Cassazione Sezioni Unite che, chiedendo l’intervento della Consulta, sollevò alcune questioni di legittimità costituzionale – per asserita violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) e contrasto con la tutela del diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.).
In sostanza, la Cassazione chiedeva di valutare la conformità alla Costituzione dell’obbligo imposto dal legislatore di procedere preventivamente – e a pena di decadenza – all’impugnazione (stragiudiziale) del licenziamento, anche nello specifico caso pratico in cui il lavoratore non possa materialmente farlo entro 60 giorni, per incapacità sopravvenuta. Nel mirino era l’art. 6 primo comma della legge sui licenziamenti individuali, la n. 604 del 1966.
Come previsto dalla legge, l’impugnazione del recesso avviene con un atto scritto e idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore, anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale.
La dichiarazione di illegittimità parziale dell’art. 6 comma 1 della legge sui licenziamenti individuali
La Corte Costituzionale ha accolto le questioni di legittimità costituzionale, spiegando sostanzialmente che l’onere dell’impugnazione entro 60 giorni dalla ricezione della comunicazione del licenziamento, ostacola l’accesso alla tutela giurisdizionale, qualora il lavoratore:
non sia in grado di comprendere il significato dell’atto datoriale né di determinarsi in merito alle iniziative da assumere.
Nella vicenda che ha portato alla decisione, la dipendente licenziata aveva vissuto una fase (certificata dalla documentazione medica) di dissociazione dalla realtà e un disturbo psicotico con stato paranoide, che l’avevano momentaneamente privata della capacità di intendere e volere.
Ecco perché la Consulta ha sentenziato che l’art. 6 primo comma, della legge 604/66 è costituzionalmente illegittimo e irragionevole, nella parte in cui non prevede che:
se al momento della ricezione della comunicazione del licenziamento, o in pendenza del termine di 60 giorni previsto per la sua impugnazione, anche in via stragiudiziale, il lavoratore versi in condizione di incapacità di intendere o di volere, non opera l’onere della previa impugnazione, anche stragiudiziale, e il licenziamento può essere impugnato entro il complessivo termine di decadenza di 240 giorni dalla ricezione della sua comunicazione.
In sintesi, con la sentenza n. 111, la Corte Costituzionale ha così dichiarato illegittima la regola di legge sul licenziamento del lavoratore in stato d’incapacità, nella parte in cui non prevede l’impugnazione entro 240 giorni dalla ricezione della lettera di recesso, invece che gli ordinari 60. Perciò il licenziamento potrà essere validamente impugnato con il deposito del ricorso, anche cautelare, o la comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato.
La Corte Costituzionale non ha spostato la decorrenza del termine di impugnazione del recesso
Attenzione però, quasi a voler fissare una sorta di compromesso tra la formulazione dell’art. 6 e gli importanti chiarimenti offerti, la Corte Costituzionale ha fissato la decorrenza del termine per l’impugnazione (stragiudiziale) dalla data della comunicazione della lettera di recesso e non da quella del riacquisto, da parte del dipendente o della dipendente, della piena capacità di intendere e di volere.
In questo modo ha ampliato la tutela dei lavoratori in stato di incapacità naturale, ma non ha aderito all’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione, che auspicavano lo spostamento – nella norma in oggetto – della decorrenza del termine per l’impugnazione dalla data della ricezione del licenziamento a quella del riacquisto della piena lucidità mentale.
Ricapitolando, alla luce della sentenza n. 111 della Consulta, il tempo utile per contestare il licenziamento sarà dato dal termine massimo complessivo per l’impugnazione, corrispondente a 240 giorni dalla ricezione della comunicazione e frutto della somma del termine per la contestazione stragiudiziale (i citati 60 giorni) e del successivo termine per il deposito del ricorso, anche cautelare, o per la comunicazione della richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato (stabilito in 180 giorni).
Che cosa cambia
In tema di lavoro subordinato, la pronuncia della Corte Costituzionale è interessante perché, a particolari condizioni e per specifiche categorie di dipendenti, estende considerevolmente la portata di un diritto alla tutela giurisdizionale che, nell’art. 6 comma 1 della legge sui licenziamenti individuali, era compresso in nome della discrezionalità di cui gode il legislatore nella configurazione degli istituti processuali e dell’esigenza di celerità dei contenziosi.
Perciò, con la sentenza n. 111 del 18 luglio scorso, la Consulta ha spiegato che il dipendente che si trovi in stato di incapacità naturale e momentaneamente non in grado di compiere un atto giuridico (ad es. per forte stato depressivo, intossicazione acuta da alcol o droghe, psicosi acuta ecc.), può impugnare il provvedimento espulsivo entro il molto più ampio termine di 240 giorni (e non due mesi) dalla relativa comunicazione con lettera, senza incorrere in alcuna decadenza od ostacolo al libero esercizio del diritto.
Il principio giurisprudenziale è – quindi – molto importante e sarà applicabile alla generalità di casi simili o analoghi a quello visto sopra, a patto di essere muniti di idonea documentazione medica.