Licenziati per essersi iscritti al sindacato, il caso: cosa dice la legge

Un fresco caso ricorda nuovamente la questione aperta delle discriminazioni subite dai lavoratori stranieri. Il licenziamento, l'intervento del sindacato e il dietrofront datoriale

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Pubblicato: 21 Settembre 2024 18:00

Fin dove può spingersi il potere di licenziare senza scavalcare i diritti essenziali, che la legge riconosce ai lavoratori dipendenti? Una recente vicenda ci ricorda che non sempre il datore di lavoro applica pienamente le norme di tutela del personale assunto, ed in primis lo Statuto dei lavoratori del 1970.

Poco tempo fa un operaio di un’azienda veneta di calzature è stato licenziato a seguito della sua libera scelta di iscriversi ad un sindacato. L’uomo pensava di poter contare su una tutela dei suoi diritti più diretta e efficace, ma non aveva valutato gli imprevisti e la ritorsione del proprio datore di lavoro. Come chiarito dalle cronache locali, da questa ingiustificata iniziativa è subito scoppiato un polverone che ha portato al dietrofront e al ritorno alle attività giornaliere in azienda.

Nel corso di questo articolo vedremo un po’ più da vicino una vicenda che, in qualche modo, ha dell’incredibile. Si può davvero allontanare qualcuno dal posto di lavoro perché ha deciso di affidarsi ad un sindacato? E come può tutelarsi il dipendente licenziato, se il datore di lavoro non cambia idea e rimane fermo sulla sua decisione di chiudere il contratto e interrompere l’esperienza professionale? Vediamo insieme cosa sapere in proposito.

Licenziato per iscrizione al sindacato: il caso in sintesi

A fare luce su quanto successo al malcapitato lavoratore, è stata la Filctem Cgil che ha offerto dettagli e ha nuovamente sollevato l’attenzione sulla questione della mancata tutela dei diritti dei lavoratori, specialmente stranieri e extracomunitari.

In questo caso la vittima è un 37enne giunto nel nostro paese alcuni anni fa, ma con famiglia in Costa d’Avorio. Il suo desiderio era quello di impegnarsi subito a lavorare, per essere produttivo e raccogliere i primi guadagni per la sua attività e aiutare i suoi cari.

Dopo cinque mesi di contratto a termine nell’area del distretto calzaturiero della Riviera del Brenta, l’ivoriano era stato assunto a tempo indeterminato nel febbraio dello scorso anno. Ma la sua esperienza non si è rivelata di certo delle migliori.

Infatti, nel corso del tempo, alcuni comportamenti non del tutto appropriati da parte del datore di lavoro hanno portato l’uomo a volerci vedere più chiaro. Come accennato sopra, è bastata però l’iscrizione alla Filctem per scatenare la reazione spropositata del recesso unilaterale, per asseriti motivi disciplinari. Evidentemente ritenuto un affronto intollerabile, il dipendente ha ricevuto una lettera di licenziamento retrodatata al 26 agosto che, per effetto dei 15 giorni di preavviso già scaduti, lo ha immediatamente lasciato appiedato e senza più un lavoro e uno stipendio.

La Filctem Cgil ha denunciato la vicenda, apparsa poi sulle cronache locali, evidenziando come l’azienda abbia aprofittato della fragilità dei lavoratori stranieri, spesso non consci dei propri diritti a causa delle difficoltà linguistica. E proprio dal sindacato si è appreso che l’azienda in oggetto impiega oltre quaranta lavoratori, tutti non italiani, e che già nel 2021 aveva già ricevuto una sanzione per lavoro nero.

Il primo licenziamento ritorsivo

Per comprendere appieno la vicenda occorre fare un passo indietro. L’azienda presso cui l’uomo lavorava aveva in verità già cercato di allontanarlo tramite un messaggio WhatsApp, per un futile motivo. Quale? Il giovane lavoratore si era limitato a domandare il rimborso del 730 in busta paga – un diritto pacificamente riconosciuto e menzionato dall’Agenzia delle Entrate nel proprio sito web.

Non avendo risposta in merito alla sua legittima richiesta si era rivolto proprio all’Amministrazione finanziaria, ottenendo da quest’ultima un documento che evidenziava le responsabilità del luogo presso cui lavorava. Come conseguenza ricevette un primo licenziamento ritorsivo, ma temporaneo perché di durata pari a due giorni.

Proprio questo fatto si è rivelato decisivo a spingerlo a un contatto diretto con i sindacati, come poi avvenuto nei mesi successivi.

Il nuovo dietrofront del datore di lavoro

Per mezzo di un suo funzionario, la citata Filctem Cgil ha annunciato il cambio di direzione dell’azienda calzaturiera. Da pochissimi giorni il dipendente ingiustamente licenziato è stato infatti riassunto e riportato alle stesse mansioni. Evidentemente il sindacato ha giocato un ruolo chiave e – anche attraverso la prospettazione di un intervento sanzionatorio dell’Ispettorato del Lavoro – ha premuto affinché il datore di lavoro reintegrasse il dipendente.

A sostegno della propria posizione, il giovane ivoriano aveva portato all’attenzione del sindacato vari casi di abuso e discriminazione, tra cui ad es. permessi non retribuiti senza il suo consenso, ferie scalate nonostante stesse lavorando oppure la mancata consegna del cedolino paga – invece obbligatoria per legge – con la motivazione della barriera linguistica. E il licenziamento per essersi iscritto al sindacato è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Le prossime iniziative locali

L’ovvio auspicio di Filctem è che un caso simile non si ripresenti più, ma ha anche anticipato la prossima convocazione di un’assemblea per i lavoratori all’interno di quell’azienda, allo scopo di affermare e ribadire il ruolo chiave del sindacato, mirato a far rispettare le regole concordate tra parti datoriali e parti sociali.

Filctem Cgil ha così colto la palla al balzo, richiedendo a Confindustria Veneto Est di prendere posizione su situazioni che, nel distretto calzaturiero, potrebbero essere molto più diffuse di quanto possa apparire in superficie – a tutto danno non soltanto dei lavoratori ma anche dell’immagine pubblica di un’area ad alta densità di imprese. Vero è che in questo caso l’azienda non è associata, ma il sindacato ha comunque invitato l’associazione territoriale del sistema Confindustria a dare un concreto segnale su tali delicate problematiche.

La denuncia del sindacato è incentrata sugli abusi subiti dai lavoratori stranieri, che non conoscono la lingua e i diritti sanciti nei contratti nazionali e dalla legge. In queste circostanze, però, l’azienda ha sottovalutato il suo dipendente, ben determinato a trovare giustizia grazie all’intervento dell’associazione.

Nel caso visto è stato sufficiente l’intervento del sindacato per riportare la situazione alla normalità, ma talvolta occorre andare in tribunale. Ad inizio anno aveva destato clamore la vicenda di un lavoratore che, dopo l’iscrizione al sindacato, era stato licenziato per lo stesso motivo.

Ne è seguita una inevitabile disputa giudiziaria e la decisione della Corte d’Appello di Ancona per il reintegro del dipendente sul posto di lavoro, insieme al riconoscimento di un indennizzo per le mensilità arretrate. Anche in questo caso il licenziamento è stato ritenuto discriminatorio e quindi nullo.

Nella vicenda il lavoratore, iscritto dalla Cgil da poche settimane, era stato allontanato dopo un messaggio su Whatsapp in cui comunicava l’iscrizione all’associazione, sollecitando colleghi e colleghe a iscriversi e fare la stessa scelta al fine di migliorare le condizioni di lavoro. Esse erano infatti ritenute incompatibili con la piena tutela dei diritti dei dipendenti.

In linea generale, ricordiamo perciò che se il datore di lavoro non si ravvede spontaneamente, il dipendente avrà comunque piena libertà di intraprendere le vie legali, seguendo le regole previste per l’impugnazione di un licenziamento ritenuto illegittimo.

La tutela del diritto all’iscrizione al sindacato

È inammissibile licenziare una persona solo perché si è iscritta al sindacato: è la parte iniziale del contratto di lavoro nazionale“, queste sono le parole utilizzate da Filctem Cgil per rimarcare che il diritto di iscriversi ad un sindacato è riconosciuto dalla legge, dallo Statuto dei lavoratori e dalla generalità dei contratti collettivi.

Pertanto in nessun caso è possibile licenziare un dipendente perché si è iscritto a un sindacato. In Italia, la Costituzione e la normativa sul lavoro tutelano il diritto dei lavoratori di aderire a organizzazioni sindacali.

In particolare, l’art. 14 dello Statuto dei lavoratori assicura la libertà di associazione sindacale, vietando ogni forma di discriminazione o di licenziamento per l’adesione o partecipazione ad un’associazione di questo tipo.

Mentre all’art. 15, in tema di atti discriminatori, si dispone che:

È nullo qualsiasi patto od atto diretto a:
a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte;
b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.

Come è intuibile, iscriversi al sindacato non è obbligatorio, ma per il lavoratore l’iscrizione ha alcuni vantaggi degni di nota. Una scelta di questo tipo può infatti agevolare una più tempestiva assistenza e consulenza in ipotesi di necessità, e il recente caso del dipendente ivoriano ne è ulteriore dimostrazione. In conclusione, ricordiamo che alcune tessere sindacali permettono benefici come ad es. attività di formazione o l’accesso più vantaggioso al credito, perciò l’iscrizione al sindacato ha sicuramente validissimi motivi di interesse per tutti i lavoratori subordinati.