Il lavoratore dipendente è tutelato dalla legge e dalla contrattazione collettiva, anche quando si trova in stato di malattia. Quest’ultima va intesa come una condizione patologica, che implica un’incapacità lavorativa temporanea e quindi l’impossibilità di svolgere le mansioni di cui al contratto. Chi è in malattia non perde il posto di lavoro (nei limiti del periodo di comporto) e continua a percepire una retribuzione o una indennità economica pur in mancanza della prestazione. D’altra parte però, il malato o la malata deve rispettare alcuni specifici obblighi per non rischiare sfavorevoli conseguenze.
Di seguito vedremo insieme una recente ordinanza della Corte di Cassazione, che ha ad oggetto proprio la malattia del lavoratore e il campo di attività che si possono svolgere nel relativo periodo, senza rischiare un pesante provvedimento disciplinare come il recesso per giusta causa. Una dipendente ferma per malattia era stata licenziata per aver svolto attività ludiche e per aver fatto acquisti in un centro commerciale, ma al di fuori degli orari di reperibilità. Ne era seguita una disputa giudiziaria finita in Cassazione.
Si può davvero licenziare per questi motivi? Ecco cosa ha precisato l’ordinanza n. 23858, emessa il 5 settembre dalla Sezione Lavoro della Suprema Corte.
Indice
La vicenda e l’impugnazione del licenziamento disciplinare
Come accennato in apertura, i lavoratori sono tenuti a rispettare una serie di obblighi per non perdere la tutela della malattia. Sarà doveroso quindi avvisare, certificare lo stato di malattia e assicurare la reperibilità in specifiche fasce orarie.
Se il dipendente non lo farà, si esporrà alle conseguenze di quello che è un vero e proprio inadempimento di un obbligo di natura contrattuale. Ma, al di là di questi essenziali impegni, qual è il campo di attività private e personali che possono essere svolte da un dipendente assente dal lavoro per malattia?
L’ordinanza che qui interessa ci aiuta a capirlo, giungendo al termine di un iter processuale che registrava la pronuncia della Corte d’Appello di Napoli, favorevole al reclamo proposto dalla dipendente contro la sentenza del tribunale dello stesso luogo.
In secondo grado, infatti, il giudice accoglieva le richieste della lavoratrice:
- dichiarando l’illegittimità del licenziamento in tronco comunicato dalla società datrice di lavoro;
- ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro, il versamento di una indennità risarcitoria commisurata a dieci mensilità dell’ultima retribuzione globale percepita e il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione.
La donna era stata scoperta a svolgere attività ritenute dalla società datrice di lavoro incompatibili con le tutele della malattia, ma la Corte d’Appello – ribaltando la decisione del primo grado – valutava che il comportamento contestato a livello disciplinare e posto alla base del recesso, ossia lo svolgimento di attività ludica presso una sala bingo e di shopping presso un centro commerciale, non fosse segnale rivelatore di una malattia simulata. A nulla quindi era valsa la relazione investigativa a seguito di pedinamento, disposto dalla stessa società datrice di lavoro.
La decisione favorevole alla lavoratrice ha spinto la società a ricorrere in Cassazione.
Attività extralavorative in malattia
Nell’ordinanza la Suprema Corte ha confermato l’illegittimità del licenziamento inflitto alla dipendente, evidenziando alcuni punti chiave. Anzitutto ha ricordato che, per consolidata giurisprudenza, lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, non configura in automatico una violazione degli obblighi contrattuali. Conseguentemente, a maggior ragione, lo svolgimento di attività non lavorative andrà esaminato caso per caso e sulla scorta della valutazioni dei fatti, per capire se ci sono gli estremi del licenziamento.
Questo giudice ricorda altresì che il concetto di malattia, rilevante ai fini di sospensione della prestazione di lavoro. include le situazioni in cui l’infermità comporti:
per intrinseca gravità o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale, sebbene transitoria, incapacità al lavoro del medesimo […], per cui, anche ove la malattia comprometta la possibilità di svolgere quella determinata attività oggetto del rapporto di lavoro, può comunque accadere che le residue capacità psico-fisiche possano consentire al lavoratore altre e diverse attività.
In sostanza, la Cassazione ammette la possibilità che, durante la malattia, siano svolte attività extra lavorative, sempre che lo stato di salute lo consenta.
L’onere della prova da parte del datore di lavoro
Inoltre, rimarca la Corte nell’ordinanza, in tema di sanzioni e di licenziamento disciplinare per svolgimento di altra attività nel periodo di assenza per malattia, ricade sull’azienda o datore di lavoro l’onere della prova che:
- la malattia sia simulata in modo fraudolento;
- l’attività svolta nei giorni di assenza sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in
servizio.
Richiamando espressamente un suo precedente del 2018, la Cassazione ha così osservato che il lavoratore assente per malattia:
non per questo deve astenersi da ogni altra attività, quale in ipotesi un’attività ludica o di intrattenimento, anche espressione dei diritti della persona, purché compatibile con lo stato di malattia e in conformità all’obbligo di correttezza e buona fede, gravante sul lavoratore, di adottare le idonee cautele perché cessi lo stato di malattia.
Nell’ordinanza della Cassazione si può leggere che la sentenza impugnata ha ritenuto non provata dal datore di lavoro la giusta causa di recesso, valutando le attività della lavoratrice in malattia – al di fuori del domicilio – per la loro marginalità inidonee a provare la simulazione e l’inesistenza della malattia o a ritardare la guarigione e il rientro al lavoro.
Conclusioni
Sulla scorta delle citate considerazioni, la sentenza della Corte d’Appello ha ritenuto non provato che la lavoratrice si fosse assentata dal lavoro in malafede, simulando la malattia certificata. La Cassazione ha sostanzialmente confermato questa linea, riconoscendo l’illegittimità del licenziamento (come già in un altro recente caso), la tutela reintegratoria e la possibilità che il lavoratore in malattia svolga tutte quelle attività che non pregiudicano o ritardano il rientro in servizio.
In estrema sintesi, per licenziare un dipendente non basterà indagare e accertare eventuali attività svolte durante l’assenza per malattia, perché occorrerà essere in grado di provare che tali attività siano effettivamente d’ostacolo al rientro in servizio o, in alternativa, che indichino una simulazione dello stato di malattia.