Dimissioni o licenziamento? Il dilemma è ricorrente negli ambienti di lavoro, specialmente quando un rapporto, nel corso del tempo, si incrina per motivi disciplinari o per comportamenti e gesti, da parte del datore di lavoro e dei superiori, sgraditi al dipendente.
L’esperienza lavorativa termina di comune accordo o con una decisione unilaterale, ma le conseguenze che ne derivano non sono sempre le stesse. Certo, il lavoratore si ritrova “appiedato” e con la necessità di trovare un’altra occupazione, e l’azienda è costretta a selezionare un’altra figura per sostituire il dipendente licenziato o dimissionario.
Ma, dicevamo, ci sono alcuni aspetti che fanno la differenza tra recesso datoriale e dimissioni volontarie del dipendente. In particolare è necessario capire perché i datori di lavoro chiedono spesso le dimissioni, invece che procedere con il licenziamento. Dietro c’è una ragione economica. Vediamo di che si tratta.
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Dimissioni per fatti concludenti, stop alla scorciatoia per la Naspi
Nelle ultime settimane c’è stato un piccolo o grande terremoto con riferimento all’introduzione delle dimissioni di fatto, previste dal Collegato Lavoro di dicembre. L’ottica è quella di sfavorire il ricorso all’assenza ingiustificata per farsi licenziare per motivi disciplinari, e ottenere con questo escamotage l’indennità di disoccupazione o Naspi.
Con le nuove dimissioni per fatti concludenti, chi si assenta oltre un certo lasso di tempo e non dando adeguata giustificazione è considerato dimissionario dalla propria azienda. La novità non è affatto sgradita ai datori di lavoro. Anzi, rispetto al licenziamento, le dimissioni sono preferite dalle aziende perché il recesso unilaterale del datore prevede il rispetto di una serie di regole più rigide, come ad esempio una valida ragione – al contrario, le dimissioni non vanno giustificate.
Ricordiamo, infatti, che il licenziamento deve essere dovuto a:
- un giustificato motivo oggettivo (crisi aziendale, soppressione del posto di lavoro);
- un giustificato motivo soggettivo (negligenza del lavoratore);
- una giusta causa (furto, insubordinazione grave, reati sul lavoro).
Inoltre, deve essere comunicato con una procedura formale e scritta, e, per le situazioni di rilievo disciplinare, il dipendente ha facoltà di controbattere con strumenti come la contestazione disciplinare e la difesa del dipendente.
Le dimissioni di fatto allontanano l’onere economico per il datore di lavoro, che scaturisce dalla stessa procedura di licenziamento.
Ticket licenziamento, previsione normativa e finalità
Nel caso delle dimissioni per fatti concludenti, ma anche in tutti gli altri casi di dimissioni (ad esempio per chi si dimette perché vuole svolgere un altro lavoro o intende trasferirsi all’estero), non ricorre l’applicazione del ticket licenziamento, introdotto con l’art. 2, commi 31-35, della legge n. 92/2012, la nota riforma Fornero. Un istituto che, a ben vedere, potrebbe spingere il datore di lavoro a favorire la via delle dimissioni volontarie.
In estrema sintesi, se un dipendente a tempo indeterminato è licenziato, l’ormai ex datore è tenuto a pagare all’Inps un contributo addizionale denominato “ticket licenziamento”, il cui effettivo ammontare dipende dal numero di anni di servizio del lavoratore.
Tale importo è dovuto in tutti i casi in cui, per licenziamento, termina un contratto di lavoro che dà diritto all’indennità di disoccupazione che è finanziata anche da questo ticket. Inoltre deve essere versato indipendentemente dall’effettiva fruizione della Naspi da parte del dipendente.
L’eccezione alla regola è rappresentata dai contratti a tempo determinato perché, per questi ultimi, non è previsto il versamento del ticket, anche se il dipendente ha comunque diritto alla Naspi.
Quanto costa all’azienda il ticket licenziamento
Alla domanda circa l’effettivo onere per l’azienda, specifichiamo che il ticket licenziamento:
- corrisponde per legge al 41% del trattamento massimale mensile di Naspi;
- va versato per ogni 12 mesi di anzianità in azienda entro un limite massimo di 3 anni.
Attenzione però, se la durata del rapporto di lavoro è stata minore di 12 mesi, il ticket dovrà essere riparametrato agli effettivi mesi di lavoro.
Considerato che, con la circolare n. 25 del 29 gennaio scorso l’Inps ha fissato a 1.562,82 euro l’importo massimo mensile di Naspi, a seguito dell’aggiornamento per l’anno in corso l’ammontare dovuto a titolo di ticket licenziamento – per ogni anno di anzianità aziendale – sarà pari a 640,67 euro (appunto il 41% di 1.562,62 euro), con un tetto massimo quindi uguale a 1.922,28 euro (640,76 euro x 3).
Per completezza ricordiamo anche che questo ticket si paga non solo per i casi di licenziamento, ma anche per le dimissioni per giusta causa, per quelle nel periodo tutelato per maternità e nei casi di risoluzione consensuale (con specifica procedura).
Invece, il ticket non è dovuto per le citate dimissioni per “fatti concludenti” in seguito ad assenza ingiustificata, introdotte dell’art. 19 L. 203/2024 (Collegato lavoro 2025).
Cosa fare se l’azienda impone le dimissioni
Il datore di lavoro non può costringere il dipendente a dimettersi, né con le buone, né con le cattive. Semmai l’imprenditore può valutare se ci sono ragioni organizzative o produttive, che permettano di fare a meno del dipendente tramite il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
In altre parole, se il lavoratore subordinato viene messo alle strette, e costretto quindi a dimettersi sotto minaccia, pressione o intimidazione aziendale, potrà impugnare il proprio stesso atto e farlo annullare giudizialmente, provando la prevaricazione patita. Sarà possibile denunciare penalmente l’azienda per il reato di minaccia.
I casi di sollecitazione alle dimissioni sono innumerevoli: basti pensare ad es. alle proposte verbali ingannevoli, di chi fa credere al lavoratore che le dimissioni siano la sola opzione possibile, oppure alle promesse di riassunzione, le quali suggerirebbero al dipendente di dimettersi con la promessa (non vincolante) di un futuro contratto.
La raccomandazione è quella di non firmare nulla sotto pressione per le dimissioni, perché ogni iniziativa in tal senso dev’essere frutto di una scelta libera e consapevole. Preferibile rivolgersi ad un sindacato o a un avvocato giuslavorista per tutelarsi e valutare i passi da compiere.
Anzi, se le dimissioni sono forzate possono essere considerate nulle e alla stregua di un licenziamento illegittimo, con possibili conseguenze per il datore di lavoro, tra cui il risarcimento del danno o il reintegro del lavoratore.
Non a caso, nel 2019 la sentenza n. 7225 della Cassazione ha spiegato che il comportamento del datore di lavoro di forzare le dimissioni, oltre a costituire una intimidazione e una minaccia, palesava una violazione dell’obbligo di garantire un ambiente di lavoro salubre e sicuro.