Ogni rapporto di lavoro è fatto di diritti e doveri, suddivisi tra azienda e dipendente. Ci sono regole ben precise da rispettare, previste dalla legge, dai Ccnl e dai regolamenti aziendali. Tuttavia non sempre tutto fila liscio e si possono verificare situazioni in cui lealtà e rispetto reciproco vengono violati.
In un recente caso deciso dalla Cassazione, un datore ha sfruttato la sua posizione di potere, di fatto costringendo un dipendente ad accettare condizioni contrattuali svantaggiose per non essere licenziato. Per questo è stato condannato per il reato di estorsione.
Vediamo insieme gli aspetti chiave della sentenza 7456/2025 della Corte e spieghiamo perché questa decisione è di portata generale e deve essere tenuta in stretta considerazione da parte di tutti i datori di lavoro.
Indice
Il caso concreto in sintesi
Un lavoratore subordinato, con mansioni di operaio presso una società era stato costretto ad assumere e conservare la carica di amministratore e legale rappresentante, assumendosi così le collegate responsabilità.
Non una vera e propria scelta libera perché l’uomo, come ricostruito nei fatti di causa, si era trovato davanti a un bivio: o diceva sì al nuovo ruolo oppure avrebbe perso il posto.
Dalla situazione era insorta una disputa giudiziaria, che aveva visto il datore condannato in primo e secondo grado per il reato di estorsione ai danni del dipendente.
La magistratura, infatti, aveva ritenuto configurato questo illecito penale in tutti i suoi elementi, in particolare:
- la minaccia;
- l’ingiusto profitto del reo;
- il danno della vittima.
Il datore di lavoro aveva fatto poi ricorso in Cassazione.
La condanna per il reato di estorsione
La Suprema Corte ha confermato le conclusioni del secondo grado e la correttezza del ragionamento logico-giuridico del precedente magistrato.
Ha così chiarito che il comportamento del datore non solo non teneva in adeguato conto i diritti del lavoratore ma aveva anche rilevanza penale.
I fatti di causa sono stati cioè correttamente valutati dal giudice d’appello, perché quest’ultimo ha evidenziato che il dipendente, pur mantenendo la sua qualifica di lavoratore subordinato, era stato forzato a ricoprire e conservare una carica che faceva nascere delicati obblighi a suo carico.
Al contempo il vantaggio era rinvenibile soltanto in capo al datore. Tanto che, si legge nella sentenza 7456/2025 della Cassazione, il dipendente:
si era reso conto che una cambiale era stata protestata, sì che non poteva aprire un conto corrente.
La Corte così sottolinea che la modifica del contratto non poteva che essere favorevole ai soli interessi del datore.
Con il cambio avrebbe fatto ricadere sull’operaio le eventuali future responsabilità, derivanti dalla gestione contabile, amministrativa e finanziaria della società (poi peraltro fallita), schermando la propria responsabilità
Secondo i giudici di piazza Cavour, la condotta non può che integrare il reato di estorsione, essendo il dipendente stato posto di fronte all’alternativa di accettare le condizioni imposte o di subire il male ingiusto della perdita del lavoro.
E il reato c’era a prescindere dalla scelta successiva dell’operaio.
In questo caso, l’uomo accettò le maggiori responsabilità e, come correttamente evidenziato dal giudice d’appello, il datore sfruttò la sua condizione di svantaggio e fragilità economica, la necessità di “salvare il posto”(tanto che desistette più volte dal proposito di dimettersi) e l’impossibilità di reagire cercando un altro lavoro, a causa della crisi del mercato.
Il danno patito dal dipendente
Non solo. Condividendo il ragionamento del giudice del secondo grado, il danno subito dal lavoratore stava nel coinvolgimento di quest’ultimo:
nella procedura fallimentare e nelle conseguenze che la legge fa derivare alla dichiarazione di fallimento, che accentrano su di sé conseguenze pregiudizievoli foriere di ricadute sia personali che di carattere patrimoniale (si pensi alla preclusione all’accesso a certe professioni o al pubblico mercato derivanti dall’incapacità, ovvero alle responsabilità patrimoniali strettamente conseguenti).
E ancora, per la Cassazione non assumeva rilevanza il fatto che l’imputato si sia in più occasioni prestato a favore della persona offesa.
Questi interventi erano infatti orientati a consolidare la situazione di “costrizione” al ruolo di responsabilità.
Ecco perché le parole della Corte, a conclusione della citata sentenza, tolgono ogni dubbio in merito alla responsabilità penale in gioco:
integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia di licenziamento, a ricoprire la carica di amministratore di una società.
Che cosa cambia e come il lavoratore può tutelarsi
Con la sentenza 7456/2025, la Cassazione ha ribadito un principio giuridico molto importante: commette un reato (art. 629 Codice Penale) il datore che, facendo leva sulla minaccia di un licenziamento, forza un suo dipendente ad accettare uno specifico incarico. Le pene previste sono reclusione e multa.
Nel caso concreto qui analizzato dalla Corte, la vittima del reato era stata costretta a fare di fatto l’amministratore della società in cui lavorava.
Ma all’assunzione di maggiori responsabilità non c’era alcun significativo “contro-bilanciamento”, perché i vantaggi di una simile situazione ricadevano tutti sul solo datore.
La sentenza spiega come quest’ultimo avesse approfittato della posizione di subordinazione del dipendente per ottenere un vantaggio ingiusto e ha precisato che non aveva importanza il fatto che il dipendente avesse continuato a lavorare per l’azienda anche dopo il fallimento, né che il datore di lavoro avesse occasionalmente aiutato il dipendente.
Sono infatti elementi che non escludono la minaccia e il dolo estorsivo.
Il dipendente costretto a diventare amministratore o a cambiare ruolo può però tutelarsi, costituendosi parte civile nel processo penale contro il datore di lavoro, e chiedere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali.
La decisione in oggetto segue un filone consolidato. In passato (si veda ad esempio Cass. 11107/2017), la Corte ha spiegato che compie estorsione anche il datore che – approfittando della situazione del mercato a lui favorevole – constringe i lavoratori, con minaccia di licenziamento, ad accettare il versamento di stipendi di importo più basso e non adeguato alle prestazioni effettuate e alla busta paga.