Dalla gig economy alla agent economy: evoluzione o rivoluzione?

Dal lavoro flessibile umano al lavoro cognitivo automatizzato: come la “Agent Economy” sta ridefinendo il modello della gig economy e inaugurando una nuova era del lavoro digitale.

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Donatella Maisto

Esperta in digital trasformation e tecnologie emergenti

Dopo 20 anni nel legal e hr, si occupa di informazione, ricerca e sviluppo. Esperta in digital transformation, tecnologie emergenti e standard internazionali per la sostenibilità, segue l’Innovation Hub della Camera di Commercio italiana per la Svizzera. MIT Alumni.

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Un confronto critico tra due modelli che segnano epoche diverse. Se la gig economy ha moltiplicato la flessibilità umana, la agent economy promette un’autonomia cognitiva che potrebbe riscrivere il contratto sociale del lavoro. Tra startup, algoritmi e nuove diseguaglianze, la domanda è la stessa di sempre: chi controlla la produzione del valore?

Dal lavoro flessibile al lavoro autonomo (davvero)

La gig economy nacque da una promessa semplice: libertà. Libertà di scegliere quando lavorare, per chi, quanto. Uber, Deliveroo, Upwork: il lavoro diventava app. Un’idea seducente. Poi, la realtà: algoritmi che decidevano i turni, piattaforme che imponevano tariffe, clienti che valutavano in stelle la sopravvivenza economica. Era la flessibilità, sì. Ma unilaterale.

Oggi, una nuova forma si affaccia, la agent economy, e la rivoluzione sembra completarsi. Gli agenti AI non chiedono incarichi: li ricevono, li eseguono, li interpretano. Non aspettano notifiche: si attivano. Il lavoro non è più un’esperienza umana mediata dal digitale, ma un processo cognitivo eseguito da un sistema. Dove prima c’era un freelance che scriveva codice o traduceva testi, ora c’è un agente che lo fa in autonomia. Il passo successivo, quello che pochi notano, è che non si tratta più di sostituzione: è sottrazione. Il lavoro si smaterializza.
E in questo vuoto, nasce un nuovo soggetto economico: il codice che lavora.

Dalla “sharing” alla “delegation economy”

La gig economy viveva della promessa della condivisione: sharing, accesso, comunità. Ma dietro la retorica orizzontale si nascondeva una struttura verticale: piattaforme che controllavano flussi, dati, reputazioni. La agent economy spinge quel modello al limite. Non condivide il lavoro: lo delega. Un’impresa può oggi assegnare intere catene di attività a un sistema autonomo: generare strategie di marketing, scrivere report finanziari, negoziare contratti, monitorare forniture.

Secondo dati PwC 2025, oltre il 12% delle aziende europee ha introdotto forme di automazione cognitiva delegata in almeno un reparto operativo. Si orchestrano reti di agenti capaci di lavorare in sinergia, in “team digitali” senza gerarchia, aggiornandosi in tempo reale.
Ogni agente è un nodo, ogni nodo può generare altri agenti. È la nascita di una delegation economy, dove il valore non si produce, si propaga. E il capitale diventa, letteralmente, cognitivo.

L’impatto economico: quando l’intelligenza diventa capitale

Nella gig economy il valore era nel tempo umano: frazionato, misurato al minuto. Nella agent economy, il valore è nel tempo computazionale. Un agente può lavorare senza sosta, in parallelo, con costi marginali prossimi allo zero.
Secondo Goldman Sachs (2025), l’autonomia algoritmica potrebbe generare un impatto sul PIL globale tra il 6 e il 9% entro il 2035, con un incremento medio della produttività del lavoro del 35%. Ma la distribuzione sarà asimmetrica: i Paesi che controllano infrastrutture di calcolo e modelli di base accumuleranno vantaggio competitivo.

È il paradosso della nuova economia: più decentralizzata in apparenza, più centralizzata nella sostanza. Nel frattempo, fondi come Andreessen Horowitz e Sequoia Capital hanno creato linee di investimento dedicate alla “autonomous labor economy”: nel 2024, oltre 4,2 miliardi di dollari in capitali di rischio sono confluiti in startup agentiche. Il lavoro, insomma, non si estingue. Cambia scala. E forse, per la prima volta, l’intelligenza è trattata come asset finanziario.

L’economia delle piattaforme: dal freelance al framework

La gig economy era una macchina di connessioni: domanda e offerta si incontravano grazie a un algoritmo che gestiva visibilità, tempi e compensi. Era un modello di efficienza relazionale: più che un mercato, un intermediario del tempo umano.
Con la agent economy, quel paradigma si sposta su un piano diverso. Non si tratta più di mettere in contatto persone, ma di coordinare intelligenze. L’algoritmo non media: orchestra.
Gli spazi digitali del lavoro non si limitano a ospitare freelancer, ma diventano ecosistemi cognitivi in cui entità umane e agenti artificiali collaborano in modo asincrono, adattivo. Il lavoro non è più una somma di prestazioni individuali, ma una rete di ruoli che si auto-distribuiscono in base a obiettivi e competenze. È il passaggio da una logica di matching a una logica di framework: sistemi che apprendono, osservano, riallocano capacità.

Una infrastruttura di cooperazione

In questo nuovo contesto, la piattaforma perde il suo volto tradizionale di semplice intermediario. Diventa ambiente operativo, un’infrastruttura di cooperazione tra soggetti biologici e algoritmici.
Il freelance del passato gestiva il proprio profilo; oggi deve gestire la propria interoperabilità: come si relaziona, quali agenti integra, come supervisiona il lavoro automatico. Il professionista non offre più solo competenze, ma capacità di interagire con sistemi intelligenti.

Eppure, dietro questa apparente democratizzazione della produttività, emergono nuove forme di concentrazione. Le piattaforme, liberate dal ruolo di datore di lavoro, si trasformano in architetture cognitive proprietarie: definiscono i protocolli di interazione, i linguaggi, gli standard etici e persino i limiti di autonomia. Non controllano più i lavoratori, ma le regole con cui le intelligenze lavorano. È un potere più astratto, ma non meno incisivo: un potere che definisce come si lavora, non chi lavora.

Così, la promessa iniziale di disintermediazione si rovescia in un nuovo equilibrio. Le piattaforme non scompaiono. Cambiano pelle — da mercato del lavoro a metastruttura del pensiero produttivo. E forse è questo il vero punto di svolta: il lavoro non passa più da chi possiede il tempo, ma da chi scrive le regole della collaborazione tra intelligenze.

Rischi: precarietà cognitiva e nuova disuguaglianza

Ogni innovazione crea valore. E spiazza qualcuno. La gig economy aveva creato milioni di microimprese personali, ma anche precarietà diffusa. La agent economy promette produttività, ma genera un rischio inedito: la precarietà cognitiva. Non mancano i posti di lavoro, mancano le mansioni.
Secondo il World Labour Forum (2025), entro il 2030 il 15% dei ruoli digitali a bassa complessità sarà sostituito da agenti autonomi.
Copywriting, contabilità, assistenza clienti: attività replicate con precisione algoritmica, ma senza il “margine d’errore umano” che spesso genera innovazione. Il rischio più sottile è un altro: la svalutazione del pensiero intermedio, quella fascia di professionalità che non è né strategica né puramente esecutiva.
E mentre gli agenti imparano in settimane, le persone si riqualificano in anni. Una sproporzione temporale che, se non governata, rischia di aprire un nuovo fossato tra le economie cognitive e quelle residuali.

Capitale cognitivo e nuove forme di potere aziendale

La rivoluzione agentica non si limita a sostituire mansioni: ridefinisce le gerarchie del potere interno all’impresa. Nella gig economy, il potere era diffuso, ma algoritmico: la piattaforma decideva chi lavorava, quando e a quale prezzo.
Nella agent economy, il potere si sposta ancora più in alto, verso chi controlla gli algoritmi che decidono gli agenti. Il management tradizionale, basato su ruoli e livelli, si sta trasformando in un sistema di governance cognitiva, dove la leadership consiste nel gestire ecosistemi di decisioni automatizzate. Il direttore operativo non coordina più persone, ma flussi di intelligenze autonome: agenti che apprendono, si correggono, si replicano.

Il capitale cognitivo

Il capitale umano, che per secoli è stato misura della ricchezza organizzativa, lascia spazio al capitale cognitivo, una forma ibrida di valore che combina dati, know-how e algoritmi proprietari. E proprio come nel capitalismo industriale il macchinario era il mezzo di produzione, nel capitalismo cognitivo lo è il modello di apprendimento.
Le imprese più evolute — Microsoft, Siemens, Samsung, ma anche nuove realtà come Anthropic e Mistral AI — stanno creando veri e propri “organi cognitivi aziendali”: cluster interni di agenti coordinati per funzioni diverse, con proprie metriche di performance e continui cicli di adattamento. Questo produce un cambiamento culturale profondo: la leadership si fa distribuita, ma il controllo diventa più opaco.
Chi programma un agente plasma un pezzo della strategia. Chi lo addestra, costruisce il pensiero dell’impresa. È un potere silenzioso, ma enorme perché invisibile.

Le implicazioni non sono solo organizzative

Il rischio di asimmetria cognitiva cresce: poche aziende possiedono gli strumenti e la potenza di calcolo per gestire agenti realmente autonomi, mentre la maggioranza li utilizza come scatole chiuse. In questo scenario, la concorrenza non sarà più solo sul prodotto, ma sull’intelligenza interna: quanto velocemente un’organizzazione può apprendere, adattarsi, decidere.
E il lavoro del futuro, paradossalmente, potrebbe tornare a essere politico, nel senso più ampio del termine: chi controlla la mente del sistema, controlla il valore.

Società e welfare: il lavoro che non paga contributi

Se gli agenti lavorano al posto nostro, chi finanzia il welfare? È una questione che inizia a emergere nei forum economici e politici.
La gig economy aveva già scardinato la base contributiva tradizionale; la agent economy rischia di cancellarla del tutto.
Il Fondo Monetario Internazionale ha avviato nel 2025 uno studio sui “AI Tax Models”: ipotesi di tassazione del lavoro automatizzato per sostenere redditi di transizione. In Corea del Sud, il governo ha introdotto il programma AI Employment Transition Fund: incentivi fiscali per le imprese che mantengono posti umani affiancati da agenti. In Europa si discute di un “reddito cognitivo di base”: non un sussidio universale, ma un meccanismo di redistribuzione del valore generato dalle piattaforme agentiche.
Il lavoro si automatizza. Ma la solidarietà, quella no. Deve restare umana.

Cultura e identità: il lavoro come interpretazione

Quando una macchina lavora, cosa resta da fare all’uomo? Non solo supervisionare, ma interpretare.
La gig economy aveva reso il lavoratore imprenditore di sé stesso; la agent economy lo trasforma in curatore dell’intelligenza altrui.
I nuovi mestieri emergenti — AI supervisor, agent behavior designer, digital ethicist — fondono conoscenze tecniche e capacità empatiche.
È un cambio di paradigma culturale: meno lavoro esecutivo, più pensiero sistemico.
Ma la sfida resta aperta. Uno studio Deloitte (2025) rivela che solo il 27% dei lavoratori europei si sente “a proprio agio” nell’interagire con agenti autonomi. La fiducia non si programma. E senza fiducia, nessuna autonomia è davvero sostenibile.

L’assemble work e la nuova impresa fluida

Tra i modelli più sperimentali che emergono nella agent economy c’è quello che molti economisti digitali chiamano assemble work: una forma di cooperazione spontanea tra persone e sistemi intelligenti che si auto-organizzano in base agli obiettivi.
Non è un’azienda nel senso classico, né un progetto temporaneo: è un ambiente di convergenza dove le competenze, umane o algoritmiche, si aggregano, si dissolvono, si riformano.

In questa logica, il coordinamento non viene imposto dall’alto, ma emerge dal comportamento collettivo. Gli agenti comunicano, analizzano, decidono; le persone osservano, interpretano, correggono. Ogni nodo è allo stesso tempo parte e regista del sistema. È una forma di organizzazione che richiama le teorie della complessità adattiva: non gerarchie, ma reti dinamiche, capaci di evolversi in tempo reale.

L’impresa diventa un processo, non un’entità. Le strutture fisse si sciolgono in configurazioni flessibili, che si adattano alle necessità del momento. Un gruppo può formarsi per risolvere un problema, dissolversi alla consegna, e riemergere altrove in altra combinazione. Non esistono ruoli permanenti, ma intenzioni distribuite. La pianificazione lascia spazio alla coordinazione spontanea, quasi organica.

Questioni inedite

Questo modello apre questioni inedite. Da un lato, promette una straordinaria agilità cognitiva: il lavoro diventa modulare, reversibile, adattabile. Dall’altro, solleva interrogativi sulla responsabilità, sulla trasparenza delle decisioni e sulla identità professionale.
Chi risponde, in un contesto in cui ogni decisione è frutto di molteplici interazioni tra agenti e persone? E fino a che punto è possibile mantenere una cultura comune, se i confini dell’organizzazione si spostano continuamente?

Eppure, proprio in questa fluidità risiede la forza del modello. Il lavoro assemble rappresenta una forma di intelligenza collettiva distribuita, capace di apprendere dal fallimento, di evolvere senza comando. È un’eco delle antiche cooperative, ma senza luoghi fisici; un ritorno all’artigianato cognitivo, dove il valore nasce dalla collaborazione più che dalla produzione.
Un capitalismo che sperimenta sé stesso: meno piramidale, più simbiotico.
E forse anche più umano, proprio perché più complesso.

Geopolitica dell’autonomia: sovranità cognitiva e nuovi poteri

Dietro la corsa alla produttività c’è la geopolitica. Chi controlla gli agenti, controlla le informazioni, le previsioni, i flussi di valore.
Gli Stati Uniti e la Cina guidano la corsa con modelli proprietari (GPT, Claude, Ernie Bot), mentre l’Europa tenta la via della sovranità cognitiva.
Il programma “AI4Europe” prevede entro il 2027 la creazione di un cloud continentale dedicato all’intelligenza agentica, con standard aperti e supervisione etica. Nel frattempo, Singapore e Corea del Sud hanno già implementato “agent framework” nazionali, dove le imprese possono registrare, monitorare e certificare il comportamento dei propri agenti digitali.
È un nuovo equilibrio industriale e diplomatico. La competizione del futuro non sarà per il petrolio o i dati, ma per l’autonomia algoritmica.

Il futuro del lavoro: tra codice e coscienza

Alla fine, il confine tra evoluzione e rivoluzione si fa labile. La gig economy aveva decentralizzato il lavoro. La agent economy decentralizza l’intelligenza. Ma ciò che rischia di perdersi non è il lavoro, bensì il significato di lavorare. Forse l’uomo del futuro non lavorerà meno, ma lavorerà diversamente: non per produrre, ma per comprendere. Il lavoro diventa metacompetenza: capacità di dare senso al funzionamento delle macchine che funzionano per noi. Ecco il vero nodo: non stiamo delegando attività, stiamo delegando intenzioni. Il codice esegue, ma non desidera.
Il futuro del lavoro sarà deciso da chi saprà unire la precisione della macchina alla fragilità del pensiero, l’unica, vera forma di intelligenza autonoma che resti davvero umana.