La promessa era chiara: rendere la finanza il cuore della transizione ecologica, guidando i flussi di capitale verso le rinnovabili e allontanandoli dai combustibili fossili. Ma a distanza di quattro anni, la Net-Zero Banking Alliance (NZBA) implode sotto il peso delle contraddizioni. Con l’uscita di giganti come HSBC, Barclays e UBS, l’alleanza voluta dalle Nazioni Unite perde gran parte della sua credibilità. E mentre le testate globali parlano di fallimento annunciato, i regolatori alzano il tono: senza norme obbligatorie, la finanza verde rischia di restare un esercizio di reputazione più che una leva di trasformazione reale.
Indice
La ritirata delle grandi banche e l’effetto domino mediatico
La defezione dei tre colossi bancari ha scatenato titoli a effetto in tutto il mondo. Il Financial Times ha parlato di “ritirata strategica” e “crisi di credibilità della finanza verde”; il Wall Street Journal ha puntato il dito sulle pressioni di azionisti e lobby energetiche; il Guardian ha evidenziato “un fallimento delle leadership bancarie nel rispondere alla crisi climatica”.
Le ricostruzioni rivelano che la tensione covava da mesi: riunioni interne sempre più tese, divergenze tra banche favorevoli a target vincolanti e istituti preoccupati per gli impatti legali ed economici. Con HSBC, Barclays e UBS fuori dall’alleanza, il rischio di un effetto domino sugli altri membri è ormai concreto.
Le giustificazioni ufficiali: flessibilità contro vincoli rigidi
Le banche hanno cercato di ridurre l’impatto reputazionale della scelta. HSBC ha dichiarato di voler garantire “maggiore flessibilità per accompagnare i clienti corporate nella transizione”, Barclays ha parlato di “conciliare sostenibilità e realismo industriale”, mentre UBS ha citato “il rischio di esposizione legale in un quadro normativo frammentato”.
Dichiarazioni che, osserva il Neue Zürcher Zeitung, celano una realtà più scomoda: i vincoli della NZBA erano percepiti come un ostacolo competitivo, soprattutto rispetto a istituti statunitensi e asiatici meno soggetti a pressioni normative. In altre parole, la sostenibilità rimane nei report annuali, ma solo finché non mette a rischio la marginalità di breve termine.
Realpolitik finanziaria: mercati energetici e pressioni politiche
La cronaca finanziaria conferma che la scelta delle banche non è isolata, ma frutto della realpolitik dei mercati energetici. Bloomberg stima che i flussi di credito al settore oil & gas abbiano raggiunto i 700 miliardi di dollari nel 2024, +18% rispetto al 2022, spinti dalla crisi energetica e dai prezzi elevati degli idrocarburi.
Il New York Times ha sottolineato il ruolo delle pressioni politiche, soprattutto negli Stati Uniti, dove parte del Congresso ha definito gli impegni ESG come “strumenti ideologici” contrari agli interessi dell’industria nazionale. HSBC, con una forte presenza in Asia, ha dovuto invece bilanciare richieste normative europee con la spinta di governi emergenti ancora dipendenti dalle fonti fossili.
Il fallimento del volontarismo climatico secondo la stampa internazionale
Il collasso della NZBA ha riacceso il dibattito globale sui limiti del volontarismo climatico. L’Economist ha definito l’alleanza “un castello di sabbia”, mentre il francese Les Échos ha parlato di “fallimento annunciato del soft law”. Persino l’ONU, promotrice del progetto, aveva segnalato già nel 2023 la necessità di rafforzare i meccanismi di monitoraggio e di rendere gli impegni più vincolanti.
Il Financial Times ha aggiunto che, in assenza di sistemi di verifica indipendenti, la NZBA si era ridotta a “vetrina reputazionale”. Il punto è semplice: senza enforcement e senza sanzioni, gli impegni volontari non reggono di fronte alla logica dei profitti e alla pressione degli azionisti.
Le reazioni delle istituzioni: tra delusione e pragmatismo
La notizia ha suscitato reazioni istituzionali divergenti. A Bruxelles, la commissaria europea Mairead McGuinness ha parlato di “un segnale di allarme” e ha rilanciato la necessità di standard vincolanti come la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) e la tassonomia verde. In Svizzera, la FINMA ha affermato che “la sostenibilità resta parte integrante della gestione del rischio” e che valuterà nuovi strumenti regolatori.
Negli Stati Uniti, il Tesoro ha scelto una linea più pragmatica, evitando critiche dirette. Ma il Washington Post ha raccolto le voci di alcuni deputati che hanno letto la ritirata come “una vittoria delle lobby fossili”, mentre in Asia la reazione è stata più sfumata, con Pechino che continua a sostenere parallelamente sia progetti green sia investimenti fossili all’estero.
Il punto di vista degli investitori e dei fondi ESG
La ritirata delle banche non ha lasciato indifferenti gli investitori istituzionali. Fondi pensione nordamericani e sovrani europei, storicamente tra i principali sostenitori degli obiettivi Net-Zero, hanno espresso preoccupazione per il segnale di debolezza lanciato al mercato. Alcuni di loro hanno già annunciato che rivedranno le proprie politiche di allocazione sui green bond e sui fondi climatici, temendo che l’assenza di un quadro stabile renda più alto il rischio di greenwashing e riduca l’attrattiva dei titoli legati alla sostenibilità. In particolare, gestori come Norges Bank Investment Management e CalPERS hanno sottolineato che la credibilità degli impegni ESG non può basarsi solo sulla volontà delle singole banche, ma necessita di regole chiare, monitoraggi indipendenti e meccanismi di enforcement. In questo senso, il collasso della NZBA rischia di incrinare non solo la reputazione della finanza verde, ma anche la fiducia complessiva degli investitori istituzionali che su di essa avevano puntato in termini di strategie di lungo periodo.
I membri rimasti
Quando fu lanciata nel 2021, la Net-Zero Banking Alliance contava oltre 130 istituzioni finanziarie, rappresentando più del 40% degli asset bancari globali. Oggi, dopo le defezioni di HSBC, Barclays e UBS, il numero effettivo di membri attivi si è ridotto a poco più di un centinaio, con un peso sistemico notevolmente inferiore. Tra i grandi gruppi che hanno confermato l’adesione figurano BNP Paribas, Crédit Agricole e Deutsche Bank, insieme ad alcuni istituti nordici e canadesi. Si registrano anche nuove adesioni di banche di medie dimensioni, soprattutto in Asia e in America Latina, ma il loro impatto non compensa l’uscita dei colossi europei. Secondo analisti di settore, il venir meno del sostegno delle big bank mina la credibilità complessiva dell’alleanza, che rischia di trasformarsi da piattaforma di governance globale a un tavolo tecnico di secondo piano.
Sostenibilità digitale: la via alternativa delle banche innovative
Se il fronte dell’alleanza si sgretola, emergono nuove direttrici. Testate come il MIT Technology Review hanno messo in luce l’uso crescente di AI, blockchain e satelliti per certificare i green bond e monitorare gli impatti ambientali in tempo reale.
Alcune banche nordiche, come Nordea e Danske Bank, hanno annunciato l’intenzione di sviluppare piattaforme digitali proprietarie di climate risk scoring, capaci di fornire dati oggettivi e ridurre il rischio di greenwashing. Il Handelsblatt ha scritto che “la vera rivoluzione potrebbe non venire da alleanze politiche, ma da infrastrutture digitali in grado di garantire trasparenza”.
Il collasso della Net-Zero Banking Alliance segna, in ogni caso, un punto di svolta: non basta più affidarsi alla retorica del volontarismo. La finanza verde dovrà scegliere se diventare strumento reale di politica industriale globale o restare confinata in un esercizio reputazionale. L’esito dipenderà dalla capacità di coniugare governance regolatoria, innovazione digitale e fiducia degli investitori. Perché, in ultima analisi, la transizione ecologica non potrà prescindere dalla finanza: e la finanza, per restare credibile, non potrà più permettersi di rinviare le proprie responsabilità.