COP28, il futuro del clima è nelle mani di quattro grandi economie

Manca poco al summit di Dubai dove verranno portati avanti i negoziati sul cambiamento climatico: Cina, Stati Uniti, India e Europa sono i grandi responsabili

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Matteo Paolini

Giornalista green

Nel 2012 ottiene l’iscrizione all’Albo dei giornalisti pubblicisti. Dal 2015 lavora come giornalista freelance occupandosi di tematiche ambientali.

La COP28 di Dubai, l’annuale conferenza delle parti dedicata al cambiamento climatico, si avvicina e suscita grandi aspettative per i principali attori coinvolti: Cina, Stati Uniti, India e Unione europea. Queste quattro potenze economiche globali rappresentano collettivamente il 54% delle emissioni di gas serra, secondo i dati aggiornati del progetto Edgar del Joint Research Center della Commissione europea. Durante l’evento, si dovrà affrontare la questione delle enormi differenze di responsabilità nel contributo alle emissioni e alle conseguenze del cambiamento climatico. Ci si chiede quindi quale sarà l’approccio adottato da questi Paesi in questa occasione importante.

La Cina, primo responsabile del cambiamento climatico

La Cina è il Paese che più di tutti contribuisce al riscaldamento globale, con il 30% delle emissioni mondiali di gas serra. Da vent’anni a questa parte, la sua crescita economica si è basata sull’uso intensivo del carbone, una fonte di energia altamente inquinante. Ora la Cina si trova a dover affrontare le conseguenze della sua scelta energetica: l’inquinamento dell’aria, la scarsità di acqua, la perdita di biodiversità e il rischio di catastrofi climatiche.

Per questo motivo, la Cina ha annunciato alcuni impegni per ridurre le sue emissioni e raggiungere la neutralità climatica entro il 2060. Tuttavia, questi obiettivi sono ancora troppo vaghi e lontani per essere credibili e efficaci. Il Piano quinquennale cinese prevede alcune misure per aumentare le energie rinnovabili e limitare il carbone, ma gli esperti ritengono che siano insufficienti per invertire la tendenza. La Cina deve fare di più e di meglio per dimostrare la sua responsabilità e la sua leadership nella lotta al cambiamento climatico.

L’impegno cinese: tra emissioni e investimenti green

Come detto, la Cina è il Paese che più incide sul clima del pianeta, con il 30% delle emissioni globali di gas serra. Ma è anche il Paese che più investe nella transizione energetica, con la metà degli investimenti mondiali in tecnologie verdi. Nel 2022, la Cina ha installato 125 GW di energia rinnovabile e venduto 6 milioni di auto elettriche, superando di gran lunga gli altri Paesi.

Tuttavia, la Cina non può ignorare il problema del suo enorme consumo di carbone, che rappresenta ancora il 60% del suo mix energetico. Il carbone è la principale fonte di inquinamento e di emissioni in Cina, e mette a rischio la salute dei cittadini e la sicurezza ambientale. La Cina si è impegnata a raggiungere la neutralità climatica entro il 2060 e il picco delle emissioni entro il 2030, ma questi obiettivi sono troppo lontani e poco ambiziosi per affrontare l’urgenza della crisi climatica.

La Cina ha quindi una grande responsabilità e una grande opportunità nella lotta al cambiamento climatico. Le sue scelte energetiche e industriali influenzeranno le sorti delle emissioni globali e il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi. La Cina deve dimostrare di essere un leader globale nella transizione energetica, accelerando la riduzione del carbone e aumentando la quota delle energie rinnovabili. Solo così potrà garantire il suo sviluppo sostenibile e la sua credibilità internazionale.

Stati Uniti: tra ambizioni e ritardi, la sfida della transizione energetica

Gli Stati Uniti sono il secondo Paese al mondo per emissioni di gas serra, con il 12% del totale. Ma sono anche il Paese che ha rinnovato il suo impegno nella lotta al cambiamento climatico, dopo il ritiro dall’Accordo di Parigi deciso da Trump. L’amministrazione Biden ha annunciato l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 e di ridurre le emissioni del 50/52% entro il 2030 (rispetto al 2005).

Per realizzare questi obiettivi, gli Stati Uniti stanno investendo massicciamente nella transizione energetica, con l’Inflation Reduction Act e altri provvedimenti che mirano a creare una filiera nazionale di tecnologie verdi, come le rinnovabili, le batterie e le auto elettriche. Questi investimenti sono anche una risposta alla competizione industriale con la Cina, che è il primo mercato mondiale per le energie rinnovabili e le auto elettriche.

Tuttavia, gli Stati Uniti devono ancora affrontare il problema delle loro elevate emissioni pro capite, che sono il doppio di quelle della Cina e il triplo di quelle dell’Europa. Gli Stati Uniti non sono riusciti a ridurre significativamente le emissioni nel lungo periodo, rimanendo fermi a -2% rispetto al 1990, mentre l’Europa ha raggiunto -28%. Inoltre, Biden non sarà presente alla COP28, delegando la sua rappresentanza al suo inviato speciale per il clima, John Kerry.

India: tra carbone e crescita, il dilemma della transizione energetica

L’India è il terzo Paese al mondo per emissioni di gas serra, con il 7,4% del totale. Ma è anche il Paese che deve affrontare la sfida di garantire lo sviluppo economico e sociale a una popolazione di oltre 1,4 miliardi di persone. L’India si trova quindi di fronte a un dilemma: come conciliare la crescita con la sostenibilità ambientale?

La risposta che l’India ha dato finora non è stata convincente: il suo modello energetico si basa ancora in gran parte sul carbone, una fonte di energia sporca e dannosa per il clima. Il suo obiettivo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2070 è troppo tardivo per rispettare gli accordi di Parigi. Il suo impegno di ridurre l’intensità carbonica entro il 2030 è troppo debole per incidere sulle emissioni.

Tuttavia, l’India ha anche mostrato alcuni segnali positivi: ha investito molto nelle energie rinnovabili, diventando il quarto Paese al mondo per capacità installata. Ha promosso l’innovazione tecnologica nel settore delle batterie e delle auto elettriche. Ha mantenuto le sue emissioni pro capite a un livello molto inferiore a quello di altri Paesi industrializzati.

L’Unione europea, leader indiscussa della transizione energetica

L’Unione europea è l’unica economia avanzata ad aver ridotto le emissioni di gas serra dal 1990. È anche l’unica al mondo ad avere un pacchetto di obiettivi e di misure molto ambizioso e allineato con le indicazioni della comunità scientifica.

L’Unione europea ha stabilito l’obiettivo di neutralità climatica entro il 2050 e un taglio delle emissioni del 55% entro il 2030. Nel 2022, l’Unione europea è stata il secondo Paese, dopo la Cina, per investimenti complessivi nella transizione energetica.

La convinzione dell’Unione europea di mantenere il ruolo di leader globale della transizione energetica è stata messa in discussione dalla guerra in Ucraina. Il recente clima politico pone anche interrogativi sul fatto che l’Unione europea possa mantenere questo ruolo anche dopo le elezioni europee del 2024.

Cina, Stati Uniti, India, Unione Europea: il peso di emissioni, popolazione e Pil

Le quattro potenze economiche globali, Cina, Stati Uniti, India e Unione Europea, non solo contribuiscono a oltre la metà delle emissioni globali di gas serra, ma rappresentano anche il 45% della popolazione mondiale e il 62% del Prodotto Interno Lordo (PIL). Al di là degli esiti delle attuali e future Conferenze delle Parti (COP), l’autonoma decisione di queste grandi economie di impegnarsi concretamente verso la neutralità climatica entro la metà del secolo potrebbe costituire un impulso così potente da invertire la tendenza delle emissioni globali, spingendo gli altri Paesi a seguire l’esempio.

L’impatto delle singole scelte: un richiamo all’urgenza della crisi climatica

Questi dati evidenziano quanto un singolo Paese, con le sue decisioni e i suoi risultati, possa influenzare significativamente la lotta contro la crisi climatica, che diventa sempre più urgente. Questo principio si applica in modo particolare a ciascuna delle grandi economie menzionate, ma vale altrettanto per l’insieme delle scelte e dei risultati dei singoli Governi in un mondo così profondamente globalizzato.

Ripensare l’approccio al cambiamento climatico

Dopo l’Accordo di Parigi, ratificato nel 2015, le COP hanno faticato a produrre risultati significativi nella riduzione delle emissioni. Forse, dopo otto anni, è giunto il momento di sganciare le aspettative sulla risoluzione del cambiamento climatico unicamente dalle COP e concentrarsi invece sugli indirizzi politici ed economici dei Governi nazionali. Un approccio che pone l’accento sul ruolo cruciale di imprese, territori e cittadini nel trainare un cambiamento sostanziale.