Non potevo neanche firmare un contratto telefonico, figuriamoci accedere al mio stipendio. Questa frase, da avvocato, l’ho ascoltata più volte, pronunciata da donne che per anni hanno vissuto in una realtà familiare dove ogni aspetto economico – conti correnti, carte, stipendi – era intestato al coniuge. Niente bancomat, nessuna autonomia sulle spese, e spesso neanche la consapevolezza di trovarsi in una forma di abuso.
Quando si rivolgevano a uno sportello antiviolenza, venivano considerate fortunate, perché almeno non venivano picchiate. È proprio questo il paradosso che rende la violenza economica subdola e pericolosa: non lascia lividi, ma mina la libertà personale, togliendo dignità e potere decisionale.
Indice
Cosa si intende per violenza economica in ambito familiare?
Quando si parla di violenza economica in famiglia, ci si riferisce a una forma di abuso sistematico che priva una persona della propria autonomia finanziaria, usando il denaro come strumento di controllo e soggezione.
Ciò accade se uno dei coniugi gestisce in modo esclusivo i conti correnti familiari, impedisce all’altro l’accesso al denaro o lo obbliga a giustificare ogni spesa.
Un’altra dinamica tipica è quella del mancato riconoscimento del contributo lavorativo in azienda familiare o nella gestione domestica, ponendo la vittima in una posizione di totale dipendenza.
In sostanza, una condotta che, perpetrandosi nel tempo, spesso passa inosservata anche da chi la subisce, perché si maschera da organizzazione familiare o da scelte condivise.
La violenza economica non è, ancora, codificata come reato autonomo. Tuttavia, è riconosciuta come forma di maltrattamento in famiglia, punibile ai sensi dell’art. 572 del Codice Penale, quando le condotte sono reiterate, oppressive e idonee a generare uno stato di prostrazione psicofisica.
A livello sovranazionale, la Convenzione di Istanbul, ratificata in Italia con la legge n. 77/2013, riconosce la violenza economica come modalità di violenza domestica e impegna gli Stati a prevenirla e contrastarla.
Anche la Direttiva Ue 2024/1385 menziona il controllo economico come una delle forme di abuso da sanzionare nell’ambito della violenza contro le donne e la violenza domestica. Tale direttiva dovrà essere recepita entro il 14 giugno 2027 e costituisce un indirizzo interpretativo vincolante per gli ordinamenti nazionali.
Se il partner controlla i soldi è una forma di violenza
Se un partner controlla le risorse economiche familiari e nega in modo sistematico l’accesso all’altro, non siamo più di fronte a una semplice gestione finanziaria, ma a una condotta potenzialmente abusiva.
La violenza economica coniugale spesso si accompagna a:
- pressioni psicologiche;
- manipolazione emotiva;
- imposizione di ruoli familiari tradizionali non condivisi.
In un sistema familiare equilibrato, la gestione economica può anche essere delegata a uno dei due partner, ma resta sempre revocabile e condivisa.
In altre parole, se tuo marito (o tua moglie) gestisce tutto il denaro familiare, ti impedisce di aprire un conto tuo, decide quanto puoi spendere e ti priva dell’indipendenza economica, la tua situazione potrebbe non essere solo ingiusta, ma anche penalmente rilevante.
Molte donne, e in misura crescente anche uomini, si trovano in questo scenario senza nemmeno avere consapevolezza che si tratti di una forma di violenza.
Non ci sono schiaffi, ma c’è la stessa logica di controllo e di soggiogamento. Anzi, proprio la sua apparente normalità la rende più difficile da individuare e denunciare.
Mi impedisce di lavorare o studiare: è un reato?
In molte relazioni familiari, accade che uno dei due partner pretenda che l’altro non lavori, non studi o non costruisca una propria indipendenza. A volte questa richiesta è giustificata da esigenze organizzative, altre volte si tratta di un’imposizione rigida, che annulla qualsiasi forma di autodeterminazione personale.
Impedire al partner di lavorare o formarsi, costringendolo a un ruolo subordinato e passivo, non è un comportamento neutro. Se reiterato nel tempo e accompagnato da elementi di coercizione psicologica, può essere inquadrato come maltrattamento in famiglia, in base all’art. 572 del Codice Penale.
Questo tipo di abuso assume una forma subdola: viene giustificato con frasi come lo faccio per il tuo bene o è meglio così per i figli, ma nella sostanza mira a mantenere un controllo unilaterale sulla struttura familiare e sull’evoluzione personale dell’altro.
La Corte di Cassazione in una recente sentenza (la n.1268/2025), ha confermato la responsabilità penale di un marito che impediva alla moglie di cercare un lavoro.
La moglie era stata obbligata a rinunciare alle sue ambizioni e costretta a svolgere tutte le mansioni domestiche. Inoltre il marito usava la dipendenza economica per esercitare un potere decisionale assoluto su ogni aspetto della vita coniugale.
Si può denunciare senza violenza fisica?
Sì, la violenza economica è rilevante in sede penale anche in assenza di percosse o aggressioni fisiche. È un errore molto comune pensare che si possa sporgere querela solo se ci sono lividi visibili o prove fisiche.
In realtà, il nostro ordinamento penale riconosce la violenza economica reiterata come forma autonoma e sufficiente per configurare il reato di maltrattamenti in famiglia.
Infatti, la Corte di Cassazione, nella già citata sentenza, ha affermato che:
Le condotte di violenza economica, se ripetute nel tempo e poste in essere in un contesto di prevaricazione psicologica, determinano un sistema familiare asimmetrico fondato sulla privazione della libertà e dell’autonomia, configurando una violenza domestica economica penalmente rilevante
La prova fisica del danno non è necessaria: è sufficiente dimostrare uno stato di prostrazione psico-fisica, una dipendenza economica imposta o una gestione autoritaria delle risorse comuni che renda il partner soggetto passivo, incapace di autodeterminarsi.
Anche nei casi in cui i coniugi siano legalmente separati, il vincolo familiare ai fini dell’applicazione dell’art. 572 del Codice Penale, persiste fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio (divorzio).
La Cassazione ha ribadito nella sentenza n. 45400/2022 che il coniuge separato può essere ancora considerato persona della famiglia se sussiste un contesto di maltrattamenti post-separazione.
Come dimostrare la violenza economica
La risposta sta nel ricostruire i fatti con elementi oggettivi, documentando non solo l’evento singolo, ma soprattutto il carattere continuativo e sistemico della condotta abusante.
La giurisprudenza, ormai consolidata, ammette la possibilità di fondare una denuncia per maltrattamenti economici su un insieme coerente di indizi e riscontri, anche se nessuno di essi, preso isolatamente, sarebbe sufficiente.
Rilevano in questo senso :
- estratti conto bancari che mostrano la totale assenza di accesso ai fondi comuni;
- registrazioni audio, chat o email da cui emergano ordini coercitivi, negazioni di spesa o condizioni economiche imposte;
- testimonianze di amici, parenti, colleghi o collaboratori che abbiano osservato il comportamento dominante del partner;
- documentazione medica, come certificati per stati d’ansia, attacchi di panico o disturbi psicosomatici correlabili alla situazione familiare;
- prove di gestione unilaterale del patrimonio familiare, come firme estorte, deleghe revocate o negazione di accesso ai documenti contabili.
A completamento, è importante sapere che l’ordinamento offre strumenti di tutela immediata, anche in fase cautelare quali ordini di protezione ex art. 342 bis e 342 ter del Codice Civile, che possono prevedere l’allontanamento del partner violento dal domicilio familiare.
Può esserci l’ammonimento del Questore (previsto dall’art. 8 del D. l. n. 11/2009), nei casi in cui non sia ancora necessario ricorrere all’autorità giudiziaria. Inoltre, sono previste misure cautelari civili o penali nei casi di urgenza, anche a tutela dei figli minori coinvolti.