Aumento dei tassi di interesse: i nostri conti sono al sicuro?

L’aumento del costo del denaro sta avendo ripercussioni in tutto il mondo, a partire dai crolli di Credit Suisse e SVB: gli italiani devono preoccuparsi?

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Pierpaolo Molinengo

Giornalista economico-finanziario

Giornalista specializzato in fisco, tasse ed economia. Muove i primi passi nel mondo immobiliare, nel occupandosi di norme e tributi, per poi appassionarsi di fisco, diritto, economia e finanza.

I primi tre mesi del 2023 sono stati caratterizzati da una serie di eventi destabilizzanti che hanno portato preoccupazione tra gli esperti di economia e gli investitori finanziari di tutto il mondo. Nelle stesse ore in cui, negli Stati Uniti, l’istituto californiano Silicon Valley Bank (Svb) – punto di riferimento per il deposito dei patrimoni delle start up – mostrava tutte le proprie fragilità, in Europa una cosa molto simile (anche se di natura diversa e con altri connotati) ha visto protagonista la Credit Suisse di Zurigo, fino ad oggi inserita stabilmente fra le 30 banche più grandi – e, si pensava, più solide – del comparto.

Secondo quanto esplicitato nei primi report degli analisti, il fatto che accomuna entrambe le situazioni è che i soggetti economici interessati si sono ritrovati a fare fronte ad uno scenario di estrema difficoltà, in parte giunto all’improvviso, senza però godere degli strumenti necessari per contrastarlo. Questo nonostante i segnali di fragilità del sistema finanziario si fossero già palesati in maniera evidente nella seconda parte del 2022, a partire dalle continue perdite delle multinazionali che operano nel mercato delle criptovalute tramite l’emissione di Bitcoin.

Perché l’aumento dei tassi di interesse sta minando la stabilità finanziaria globale

La banca americana per le aziende del tech e del settore innovativo, fin dalla sua fondazione in epoca recente, ha nel proprio DNA la caratteristica che l’ha portata al crollo degli ultimi giorni, ossia la scarsa disponibilità di liquidità: l’aumento dei tassi d’interesse annunciato e poi praticato dalla Federal Reserve – che proprio in queste ore ha innalzato l’indice di altri 25 punti base, portando il valore complessivo al 5% – ha messo in allarme i suoi clienti, che hanno così deciso di ritirare in massa le proprie somme per il timore che il costo del denaro sempre più elevato possa portare ad un danneggiamento a lungo termine dei loro fondi impiegati in titoli. Uno scenario che la Svb non ha potuto affrontare solamente con le proprie forze. È dovuto intervenire direttamente il governo degli Stati Uniti, adottando un piano di salvataggio per evitare che le sorti dell’istituto fossero le stesse a cui andò incontro la Lehman Brothers ormai 15 anni fa.

In Europa invece il mancato appoggio alla Credit Suisse non è venuto da parte di tanti piccoli investitori, bensì dal suo azionista principale, ossia la Saudi National Bank. L’istituto mediorientale – che vede al proprio interno la partecipazione al 37% del fondo sovrano saudita – ha infatti annunciato che non investirà più nell’istituto elvetico nella maniera conosciuta finora. Anche in questo caso l’annuncio è conseguente all’aumento dei tassi di interesse voluto da Christine Lagarde, presidente della Banca Centrale Europea, che lo scorso 16 marzo ha reso pubblica la propria volontà di alzarli dal 3,50% al 3,75%, cosa poi realmente avvenuta. Ora, a differenza di quanto accaduto negli Usa, sarà la banca privata svizzera UBS ad assorbire l’istituto, scongiurando la sua chiusura definitiva.

Stretta di Fed e Bce: le banche italiane sono a rischio?

Intervistato dal Corriere della Sera sulla possibilità che questi tracolli – per ora isolati – possano contagiare altri soggetti, Antonio Patuelli (presidente dell’Associazione Bancaria Italiana) ha usato toni rassicuranti, ricordando come le nostre banche possano contare su una dose massiccia di investimenti in titoli di Stato (nell’ordine di circa 400 miliardi di euro) che producono riserve di liquidità.

Inoltre, il numero uno dell’Abi ha fatto riferimento alle obbligazioni sottoscritte con una scadenza lunghissima – di cui era piena, ad esempio, la Silicon Valley Bank – come lo strumento peggiore dal punto di vista della stabilità, poiché troppo esposti ai cambiamenti imposti dalle banche centrali per combattere l’inflazione in continua crescita. Anche su queste tipologie di prodotti, per fortuna, gli istituti italiani non hanno puntato nel corso degli ultimi anni, preferendo quelli con termini temporali più ristretti.