Punto primo. Stiamo parlando di un possibile effetto indesiderato “sociale” e non sanitario. Che, peraltro, potrebbe non essere del tutto negativo, visto che si associa alla tendenza di privilegiare alimenti più sani nella dieta.
Punto secondo. Siamo di fronte ad uno studio pilota, che non consente di trarre conclusioni definitive. Ma è possibile che la diffusione dei trattamenti farmacologici per l’obesità negli Usa si associ, in alcuni casi, ad un potenziale freno allo spreco di cibo. Con impatto futuro sulle risorse e sulla produzione di gas serra.
A porre in luce l’ipotesi è un’originale ricerca condotta da Jamil Mansouri e Brian E. Roe, dell’Università dell’Ohio, pubblicata su Nutrients. Dall’indagine emerge che una persona su quattro, in seguito al trattamento con queste terapie, tenderebbe a buttare via una maggior quantità di alimenti rispetto al periodo precedente la cura. ma per gli altri, il cambio delle abitudini alimentari porterebbe, nel tempo, ad effetti benefici anche per l’ambiente.
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Come funziona i trattamenti
Diciamolo. L’effetto sui consumi alimentari non è solo atteso ma addirittura ricercato, quando si prescrivono farmaci di questo tipo. E non bisogna dimenticare che, rispetto a quanto avviene in Italia, negli Usa si può proprio parlare di “Ozempic-mania”, sulla scorta del nome commerciale più noto (non è l’unico) della molecola semaglutide. Basti pensare in questo senso che, stando ad osservazioni della primavera scorsa, più di cinque americani su cento hanno affermato di assumere questi farmaci per il trattamento del diabete di tipo 2 e l’obesità.
Nella ricerca, in particolare, si sono analizzati i risultati di una popolazione di circa 500 adulti in trattamento con farmaci per l’obesità. In quasi il 70% dei casi gli intervistati assumevano appunto semaglutide, mentre quasi un quarto dei partecipanti era in trattamento con tirzepatide. Il primo farmaco è un agonista del recettore del peptide-1 glucagone-simile (GLP-1) e oltre all’azione sul diabete di tipo 2 contribuisce a ridurre l’introito di calorie principalmente modificando i segnali di fame e sazietà in specifiche regioni del sistema nervoso. Tirzepatide è il primo agente di una nuova classe di farmaci con una struttura molecolare progettata per attivare sia il recettore del GLP-1 che quello del GIP (polipeptide insulinotropico glucosio-dipendente), le due incretine predominanti nell’intestino.
Sul fronte clinico, chi assumeva questi trattamenti da almeno un anno ha mostrato un calo pari a circa il 20%. Ma, come detto, lo studio non aveva obiettivi scientifici sul fronte del calo ponderale. L’analisi è stata effettuata con un questionario online che ha preso in esame fattori sociodemografici, caratteristiche personali e domande riguardanti cambiamenti nelle abitudini alimentari, peso e spreco alimentare dall’inizio dell’assunzione dei farmaci. In particolare si è andati a valutare una risposta “da quando ho iniziato questa terapia, ho scoperto che spreco più cibo di quello che acquisto”. Risultato generale? Una persona su quattro ha dichiarato di aver sprecato più cibo da quando ha assunto i farmaci, rispetto al 61% che non si è detto d’accordo con un potenziale aumento dello spreco. D’altro canto la durata del trattamento (ovvero l’assunzione protratta delle cure) e la tendenza a consumare più frutta e verdura sono apparsi associati ad un minor spreco.
La tendenza a scegliere e scartare
Negli Usa, stando alle stime delle National Academies, il problema dello spreco di cibo è particolarmente importante. In media andrebbe perduto circa un terzo di quanto disponibile, per metà circa sulla base di “eliminazione” diretta da parte delle persone.
Venendo allo studio, il trattamento con farmaci di questo tipo, dopo un anno o più di terapia, si è associato ad un minor spreco di cibo rispetto a quanto osservato dopo soli tre mesi (o meno) di cura. Va detto anche che in qualche modo l’effetto sulla tendenza a buttare via alcuni cibi non appare generalizzata e non si basa solamente sugli effetti del farmaco, ma su un progressivo mutamento (auspicabile) a modificare le scelte a tavola.
In particolare i risultati paiono mostrare una maggior tendenza a “cestinare” alimenti non più indicati nella dieta. Tra gli intervistati è emersa infatti la tendenza a preferire vegetali, proteine, pesce e a scegliere lipidi più indicati sul fronte della salute, con progressivo calo dell’introito di alimenti come fritti, dolci e altri cibi non propriamente salutari. Questi in molti casi, sono stati quindi eliminati. L’aggiunta di verdure alla dieta, il gruppo alimentare più comunemente sprecato negli Usa, appare collegato ad un minor spreco di questi alimenti più facilmente deperibili.
Ora, da parte degli esperti d’oltre Oceano si punta a valutare anche gli impatti economici di queste cure, e non solo sul fronte economico ma anche sul versante delle spese alimentari. Il tutto per comprendere anche quale potrebbe essere l’impatto dei mutamenti delle abitudini a tavola sul fronte dei costi energetici, dell’utilizzo delle risorse naturali e dell’impatto sui gas serra.
L’importanza del rapporto medico-paziente
Ciò che conta, in ogni caso, è evitare sempre il “fai da te”. Se sul fronte economico ed ambientale è ancora presto per fare previsioni, infatti, rimane una realtà, che nasce dal rapporto tra medico e paziente. Quest’ultimo deve essere informato per comprendere che progressivamente potrebbe trovarsi a fare una “spesa” diversa, per ridurre lo spreco di cibo ed avere un vantaggio sul fronte economico. E’ basilare che il percorso di cura percorso sia accompagnato da un medico esperto che cerchi di migliorare, nel frattempo, lo stile di vita, per poi mantenere il peso raggiunto.