Secondo lavoro in malattia, in questo caso il licenziamento non è valido: ecco perché

La Cassazione ha ritenuto infondato il licenziamento di un dipendente in malattia, che lavorava nel bar di sua proprietà. Il caso e le ragioni della decisione

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Pubblicato: 14 Settembre 2024 10:00

Quando si pensa al classico caso del dipendente in malattia, sorpreso a svolgere attività che non c’entrano nulla con quest’ultima e con la guarigione, la conclusione più ovvia è quella del licenziamento per giusta causa – con eventuale conferma in tribunale. Basti pensare alla recente vicenda che ha visto coinvolta l’azienda di trasporti regionali Eav che gestisce i treni della Circumvesuviana, su cui si è pronunciata la Corte di Cassazione confermando la legittimità del licenziamento di un dipendente formalmente ‘assente per malattia’, ma che in realtà – nei giorni in cui avrebbe dovuto stare a riposo – era in giro per motivi privati, trovando anche il tempo per giocare a pallone.

Tuttavia, non sempre la decisione del giudice è la più ovvia o scontata, o almeno non lo è a prima vista. L’ordinanza della Cassazione n. 23747 del 4 settembre scorso, lo conferma e lo chiarisce. Vediamo insieme i suoi contenuti chiave, la vicenda da cui è scaturita e i motivi per cui il licenziamento per giusta causa di un dipendente che faceva un secondo lavoro in malattia, è stato considerato illegittimo.

La vicenda all’attenzione della magistratura

In linea generale, la malattia consiste in uno degli eventi tutelati che implicano la sospensione della prestazione di lavoro. Per legge e per disciplina dei Ccnl, in stato di malattia il dipendente ha diritto alla conservazione del posto di lavoro e a incassare una retribuzione o una indennità economica nonostante l’assenza. D’altra parte però egli dovrà garantire il rispetto di una serie di obblighi nei confronti dell’azienda, come ad es. quello di avvisare il capo, certificare lo stato di malattia e assicurare la reperibilità in specifiche fasce orarie.

In questa vicenda un dipendente era stato licenziato perché, nell’ambito di periodo di assenza dal lavoro per malattia, tramite una telecamera era stato scoperto a lavorare nel bar di sua proprietà. In particolare l’azienda ha aveva optato per il licenziamento, affermando che il suo dipendente avesse utilizzato la mano infortunata al fine di compiere alcune attività lavorative tipiche di questo genere di esercizi commerciali. Tali attività avrebbero contribuito a peggiorare il suo stato di salute, rallentando i tempi di piena guarigione.

A seguito del licenziamento disposto per ragioni disciplinari, le parti si sono confrontate in sede giudiziaria e – in primo grado come pure in appello – la decisione del giudice è stata quella dell’illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto, con ogni conseguenza ai fini reintegratori e risarcitori. In altre parole, il recesso unilaterale non era fondato su valide ragioni e le attività svolte erano da considerarsi senza rilevanza e non lesive per il rientro in servizio e la guarigione.

La decisione della Cassazione

Non avendo accettato conclusioni a lui sfavorevoli, il datore di lavoro si è giocato l’ulteriore carta del ricorso in Cassazione. Tuttavia, nella suddetta ordinanza n. 23747, il giudice di legittimità ha confermato quanto già nelle pronunce di primo e secondo grado, scrivendo in particolare che all’azienda o datore di lavoro spetta il compito di provare le circostanze oggettive e soggettive, imputabili al lavoratore subordinato e configuranti una violazione di quegli obblighi di diligenza e buona fede tipici di ogni rapporto di lavoro.

Ebbene, quanto evidenziato nel corso dell’iter giudiziario in Cassazione non è stato sufficiente alla conferma del licenziamento. Nel testo dell’ordinanza si leggono infatti le seguenti parole:

Come emerso dalle immagini di videosorveglianza le attività svolte dal dipendente presso il bar non configurano alcuna illiceità

ed inoltre si è trattato di:

Attività del tutto “insignificanti” compiute a distanza di circa sette mesi dall’infortunio e a pochi giorni dalla fine dell’inabilità”.

Insomma, nessun obbligo violato dal dipendente e nessuna prova sufficiente a dimostrare che le attività svolte abbiano compromesso la guarigione o ritardato il rientro in servizio. Anzi, sulla scorta delle risultanze istruttorie ottenute, è stata ritenuta irrilevante la condotta del dipendente nel suo bar. In particolare, egli per nove giorni consecutivi aveva svolto attività leggere utilizzando la mano destra infortunata (ad es. telefonate, scrittura messaggi sullo smartphone ecc.) e attività più pesanti come ad es. aprire e chiudere la porta del locale o sollevare sedie e tavoli.

In estrema sintesi, quanto raccolto e portato in giudizio dal datore di lavoro per giustificare il licenziamento, non è stato ritenuto sufficiente all’allontanamento del dipendente.

Precedenti giurisprudenziali sul tema

Quanto indicato dalla Cassazione nei giorni scorsi rispecchia un orientamento emerso già anni addietro, che smentisce ciò che il senso comune porterebbe a pensare. La Suprema Corte, con la sentenza n. 21667 del 2017, aveva infatti affermato che lavorare durante la malattia  – o meglio svolgere un altro lavoro – può essere valido motivo di licenziamento soltanto se la suddetta attività pregiudica o ritarda i tempi di guarigione. Ecco le illuminanti parole utilizzate in quella decisione:

Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idoneo a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove tale attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolente simulazione, ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l’attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore.

Non solo. Anche con la sentenza n. 16465 del 2015, la Cassazione aveva affermato che lo svolgimento di attività extralavorativa nel periodo di assenza per malattia rappresenta illecito disciplinare non soltanto se da questo comportamento scaturisca un’effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro, ma altresì quando la ripresa sia solo messa in pericolo dalla condotta imprudente.

Conclusioni

Il licenziamento disciplinare, dovuto allo svolgimento di attività lavorativa in periodo di malattia, è un’ipotesi frequente nella casistica giudiziaria, ma non per questo è sempre legittimo e non sempre costituisce una violazione dei doveri di correttezza e buona fede né degli obblighi di diligenza e fedeltà, di cui agli artt. 2104 e 2105 Codice Civile.

La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 23747 di pochi giorni fa, ha dichiarato che è illegittimo il licenziamento del lavoratore subordinato per aver svolto una differente attività di lavoro, nel proprio bar, facendo uso della mano infortunata. La condotta, considerata dal datore di ostacolo al pieno recupero del suo dipendente, è stata invece giudicata dalla Cassazione Corte inconsistente e irrilevante ai fini del recesso unilaterale.

Più in generale, in tema di licenziamento disciplinare per lo svolgimento di altra attività lavorativa o extralavorativa, nel periodo di assenza per malattia del dipendente, ricade sull’azienda o datore di lavoro l’onere di dimostrare che la malattia sia simulata o che l’attività effettuata sia potenzialmente idonea a compromettere o ritardare il rientro in servizio del dipendente stesso. Se la prova non è raggiunta, il licenziamento sarà dichiarato illegittimo e infondato.