Climate Week di New York, grandi promesse, piccoli tagli. Belém avrà l’ultima parola

Dalla Climate Week di New York all’attesa COP30 in Amazzonia, il mondo si muove a passo lento: gli impegni annunciati non bastano per restare entro 1,5 °C.

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Donatella Maisto

Esperta in digital trasformation e tecnologie emergenti

Dopo 20 anni nel legal e hr, si occupa di informazione, ricerca e sviluppo. Esperta in digital transformation, tecnologie emergenti e standard internazionali per la sostenibilità, segue l’Innovation Hub della Camera di Commercio italiana per la Svizzera. MIT Alumni.

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Tra Midtown e l’East River, il cuore della diplomazia internazionale ha battuto al ritmo della crisi climatica. La Climate Week 2025 NYC, con i suoi oltre mille eventi, e l’Assemblea Generale dell’ONU hanno trasformato la città in un epicentro politico e simbolico. Annunci, conferenze, marce e slogan hanno scandito una settimana, quella appena passata, densa di promesse. Ma dietro il linguaggio trionfalistico, la matematica racconta un’altra storia: le riduzioni proposte restano troppo modeste, troppo lente, troppo distanti dal ritmo che la scienza considera vitale. Ora lo sguardo si sposta in Brasile: sarà Belém, con la COP30, a decidere se la comunità internazionale saprà colmare il divario tra parole e azione.

Pechino al centro della scena: ambizione o calcolo geopolitico?

L’annuncio più atteso è arrivato dalla Cina. In videocollegamento all’ONU, Xi Jinping ha presentato la nuova strategia climatica: taglio delle emissioni del 7–10% entro il 2035, oltre il 30% di consumi energetici coperti da fonti non fossili e 3,6 terawatt di capacità rinnovabile installata entro il prossimo decennio. Numeri imponenti, che, da soli, superano l’attuale capacità rinnovabile del resto del pianeta.

Per Pechino, non è solo una questione climatica, ma industriale e geopolitica. Con questi obiettivi, la Cina punta a consolidare il suo dominio nelle filiere globali delle rinnovabili: pannelli solari, turbine eoliche, batterie. Un vantaggio competitivo che si traduce in influenza politica e capacità di dettare gli standard del futuro.

Eppure, il paradosso è evidente: mentre Xi prometteva un futuro verde, nuove centrali a carbone entravano in funzione nelle province interne. È questo dualismo che preoccupa analisti e climatologi: l’espansione delle rinnovabili è reale, ma rischia di essere neutralizzata dal perdurare della dipendenza dal carbone. La Cina, in altre parole, gioca una partita sofisticata, ma il tempo — risorsa oggi più scarsa del carbone — resta il suo tallone d’Achille.

La voce dura di Guterres: “Serve una svolta, non micro-annunci”

Dal podio dell’Assemblea Generale, António Guterres ha fatto quello che sa fare meglio: dire la verità nuda e cruda. “Abbiamo bisogno di piani molto più rapidi e molto più ambiziosi”, ha dichiarato, avvertendo che la COP30 non può trasformarsi nell’ennesima passerella di promesse.

Non è la prima volta che il Segretario Generale usa un linguaggio di rottura. Già a Glasgow e a Dubai aveva parlato di “dipendenza mortale dai combustibili fossili”. Ma questa volta il tono è apparso ancora più grave: la finestra temporale per restare sotto 1,5 °C, ha ricordato, è quasi chiusa.

Il problema, però, è strutturale. Ogni Paese porta al tavolo interessi interni, cicli elettorali, pressioni industriali. Così le NDC 3.0 rischiano di diventare più un esercizio retorico che un cambio di rotta reale. L’assenza di un meccanismo vincolante globale continua a pesare: senza obblighi stringenti, le promesse restano vulnerabili al gioco politico del rinvio.

Cos’è un NDC 3.0?

Le Nationally Determined Contributions (NDCs) sono i piani nazionali di riduzione delle emissioni previsti dall’Accordo di Parigi del 2015. Ogni Paese deve aggiornarli periodicamente, aumentando l’ambizione.

  • Le prime versioni (NDC 1.0) furono presentate a Parigi
  • Le NDC 2.0 hanno accompagnato i negoziati fino al 2020
  • Le NDC 3.0, richieste per il 2025, sono i primi piani a nascere dopo il Global Stocktake, la valutazione collettiva che ha mostrato quanto siamo lontani dalla traiettoria 1,5 °C

I numeri che smentiscono la retorica

Dietro l’euforia degli annunci, i dati parlano chiaro. Le nuove promesse potrebbero tagliare circa 2 gigatonnellate di CO₂ equivalente entro il 2035. Ma la scienza dice che ne servirebbero almeno 30 entro lo stesso orizzonte temporale per mantenere la rotta verso 1,5 °C. In pratica, copriamo appena il 6% dello sforzo necessario.

Non è solo un problema di quantità: è un problema di tempo. Gli scienziati sono chiari da anni: le riduzioni devono avvenire subito, nel decennio 2020–2030. Rimandare al 2035 significa spostare il peso sulle generazioni future e accumulare rischi sistemici. È come cercare di fermare una valanga con le mani: ogni anno di ritardo moltiplica costi economici, sociali e umani.

La matematica delle emissioni mancate

  • Tagli promessi entro il 2035: -2 Gt CO₂eq
  • Tagli necessari per 1,5 °C: -30 Gt CO₂eq
  • Gap attuale: circa -28 Gt
    Questa forbice è ciò che gli scienziati definiscono “emissions gap”: la differenza tra quello che i governi promettono e ciò che sarebbe necessario per rispettare l’Accordo di Parigi.

L’Europa tra ambizione e fragilità interna

L’Unione Europea ha provato a mostrare i muscoli. A New York si è discusso di un target 2035 che prevede un taglio delle emissioni compreso tra il 66% e il 72% rispetto ai livelli del 1990. Se confermato, sarebbe uno dei target più ambiziosi al mondo, capace di rafforzare il ruolo di Bruxelles come leader climatico.

Ma l’Europa non è un blocco monolitico. I Paesi dell’Est, ancora dipendenti da carbone e gas, vedono questi obiettivi come minacce alle loro economie. I Paesi del Nord, invece, spingono per accelerare. In mezzo, la Commissione cerca di mantenere equilibrio, consapevole che la sua forza negoziale dipende dalla capacità di restare unita.

L’Ue, insomma, cammina su un filo sottile: se riuscirà a mantenere la coesione interna, potrà ancora rivendicare un ruolo guida. Se, invece, prevarranno le divisioni, il suo peso politico a Belém rischia di ridursi drasticamente.

New York come preludio: una partita ancora aperta

La Climate Week 2025 è stata al tempo stesso spettacolo e laboratorio. Le strade di Manhattan hanno ospitato proteste e marce per la giustizia climatica, mentre nei grattacieli si tenevano tavoli negoziali su energia, finanza e innovazione. Mai come oggi il tema è stato così presente nell’opinione pubblica e nell’agenda politica.

Eppure, la sensazione dominante è di incompiutezza. Si investe di più, si parla di più, ma le emissioni non calano. È come se il sistema internazionale conoscesse bene la malattia, ma continuasse a prescrivere cure palliative, evitando l’intervento chirurgico.

Belém come ultima occasione

Ora tutti gli occhi si spostano su Belém, in Brasile. Una scelta non casuale: l’Amazzonia è il simbolo di ciò che il mondo rischia di perdere e al tempo stesso di ciò che potrebbe ancora salvare.

COP30 sarà un test di credibilità: i governi dovranno dimostrare di saper colmare il divario tra promesse e realtà. Potrebbe essere il vertice in cui si sceglie davvero di cambiare rotta, con misure vincolanti e immediate, oppure l’ennesima occasione mancata, quella che passerà alla storia come il punto in cui la politica ha smesso di rincorrere la scienza.

New York ha acceso i riflettori, ma non ha riscritto la trama. Sarà Belém a decidere se il XXI secolo racconterà la storia di un pianeta capace di reinventarsi o quella di un mondo che, pur conoscendo il pericolo, ha scelto di guardare altrove.