Le piccole e medie imprese digitali italiane potrebbero trovarsi ad affrontare una nuova tassa: il governo Meloni punta a far pagare la web tax anche alle Pmi a partire dal 2026. L’imposta sui servizi digitali viene applicata dal 2020 per colpire i giganti del web, che nella maggior parte dei casi hanno sedi fiscali in Paesi con regimi agevolati. Ma il viceministro dell’economia Maurizio Leo ha fatto sapere che a pagare la web tax saranno presto anche le Pmi. L’obiettivo dichiarato è quello di reperire risorse per sostenere le misure promesse in Manovra.
Marcia indietro di Meloni sulla web tax
L’accordo globale sulla tassazione delle Big Tech è in stallo, ma il governo è comunque in crisi di liquidità. Dunque punta a estendere la web tax anche alle Pmi. La stessa web tax che a suo tempo Giorgia Meloni definì “un’idiozia” e “una vergogna”.
A chi si applica la web tax oggi
La dicitura di “web tax” indica un’imposta del 3% sui ricavi che le aziende ottengono dalla pubblicità digitale, dall’accesso alle piattaforme web e dalla trasmissione di dati degli utenti. Sono esclusi l’ecommerce e le interfacce digitali usate per gestire i sistemi dei regolamenti interbancari.
Oggi la web tax si applica unicamente a chi fornisce servizi digitali in Italia. Fa fede l’indirizzo Ip. La web tax deve essere pagata dalle grandi piattaforme informatiche che hanno ricavi globali oltre i 750 milioni di euro, con ricavi da servizi digitali in Italia pari ad almeno 5,5 milioni.
Nel 2023 il gettito da web tax atteso dal governo Meloni è stato di 700 milioni di euro, ma le entrate reali si sono fermate a 390 milioni. Le regole applicate fino ad oggi erano state stabilite nel 2019. Con le novità previste dalla Manovra 2025, la web tax si applicherà anche alle Pmi, al fine di aumentare le entrate.
La web tax in Europa
L’attuale imposta sulle transazioni digitali era stata introdotta in Italia come una misura transitoria, destinata a restare in vigore finché tutti i Paesi dell’Ocse non si fossero accordati sul primo pilastro della riforma della tassazione delle multinazionali.
L’accordo, come è noto, non è mai arrivato e alcuni Paesi, fra i quali l’Italia, hanno firmato un compromesso con gli Usa, Paese in cui si concentra il maggior numero di aziende digitali per volume di utenza. Dal momento che fra i Paesi Ocse è saltata la possibilità di mettere in piedi un sistema fiscale comune, ogni Stato si sta muovendo individualmente.
Per questo il governo Meloni oggi vuole cancellare il tetto ai ricavi, superando l’applicazione di quel Dst (Digital Service Tax) introdotto in Italia con la Manovra 2020 (legge 160/2019).
Chi si oppone
Netcomm, il Consorzio del commercio digitale in Italia, si esprime contro l’estensione della web tax alle Pmi. “Tassare in modo aggressivo il settore digitale non favorirà la crescita economica del Paese. Il rischio di doppie imposizioni e la conseguente fuga di imprese all’estero rappresentano motivi di preoccupazione”.
È cruciale – aggiunge – che “i policy maker comprendano che, aumentando il gettito fiscale, si sta anche soffocando un settore che potrebbe contribuire in modo significativo alla ripresa economica del Paese. L’Italia deve adottare una strategia che favorisca la digitalizzazione, piuttosto che penalizzarla”. Queste le parole di Roberto Liscia, presidente di Netcomm, riportate da Wired.
Senza contare che una maggiore imposizione sui servizi digitali delle Pmi, fra le altre cose, potrebbe complicare la già difficile strada della Transizione 5.0.