Dopo anni di squilibri acuiti dalla pandemia, dalla crisi energetica e dall’aumento dei tassi di interesse, il 2024 ha segnato un punto di svolta: l’indebitamento netto delle Amministrazioni Pubbliche si è ridotto sensibilmente, passando dal -7,2% del 2023 al -3,4% del Pil.
I nuovi dati sui conti economici nazionali, diffusi dall’Istat il 22 settembre 2025 e relativi al biennio 2023/2024, offrono una fotografia interessante e, sotto molti aspetti, incoraggiante dello stato delle finanze pubbliche italiane.
Indice
Cosa ci dicono i dati sull’indebitamento netto delle Pa
I dati diffusi dall’Istat ci dicono che l’indebitamento netto delle Amministrazioni Pubbliche in Italia ha registrato un miglioramento significativo nel 2024, anno in cui il rapporto deficit/Pil è sceso al -3,4%, avvicinandosi alla soglia del 3% prevista dai criteri di convergenza di Maastricht.
Nel 2023 infatti il deficit era pari al -7,2% del Pil, un livello elevato, legato sia agli effetti post-pandemia sia all’impatto di misure straordinarie di sostegno all’economia e alle famiglie.
Questo significa che, pur rimanendo in disavanzo, lo Stato italiano ha ridotto fortemente lo squilibrio tra entrate e spese.
Un altro dato chiave è il saldo primario (cioè il deficit al netto della spesa per interessi sul debito), che nel 2023 era negativo, pari a -3,5% del Pil, mentre nel 2024 è tornato positivo a +0,5% del Pil.
Questo conferma che l’Italia nel 2024 ha raccolto più risorse di quante ne abbia spese. Cosa ci dicono allora questi numeri?
Prima di tutto che i conti pubblici stanno migliorando in termini di sostenibilità, grazie anche a un moderato aumento del Pil e a una gestione più attenta della spesa.
Tuttavia, il peso degli interessi sul debito resta alto e insieme alla pressione fiscale rappresenta il principale ostacolo a un riequilibrio strutturale e duraturo.
L’effetto della spesa per interessi e della pressione fiscale
Il miglioramento dei conti, tuttavia, non è privo di ombre.
La spesa per interessi è aumentata del 10,1%, riflettendo l’effetto della politica monetaria restrittiva della Banca Centrale Europea.
L’aumento dei tassi ha reso più oneroso il servizio del debito pubblico italiano, che resta tra i più elevati al mondo in rapporto al Pil.
In parallelo, la pressione fiscale è cresciuta di oltre un punto percentuale, riportandosi sui livelli registrati nel 2020/2021.
Il riequilibrio dei conti pubblici, pertanto, è stato ottenuto (almeno in parte) attraverso un aumento del carico fiscale, piuttosto che tramite una riduzione strutturale della spesa o un’espansione significativa della base imponibile legata a una crescita robusta.
Per questo motivo non bisogna sottovalutare i rischi.
In primis, la crescita economica resta modesta e non uniforme tra i settori, con un’industria stagnante che potrebbe zavorrare il futuro andamento del Pil.
È inoltre vero che la spesa per interessi, destinata a rimanere elevata finché i tassi non torneranno su livelli più bassi, continuerà a sottrarre risorse a investimenti produttivi e politiche sociali.
L’aumento della pressione fiscale rischia di pesare sui consumi e sugli investimenti, proprio in un momento in cui sarebbe fondamentale rilanciare la domanda interna.
La sfida delle riforme strutturali
Per consolidare i progressi fatti, l’Italia non può limitarsi a celebrare il dimezzamento del deficit. Serve una strategia di lungo periodo che punti a una crescita più robusta e sostenibile.
Ciò significa intervenire sulle riforme strutturali, per migliorare l’efficienza della Pubblica Amministrazione, semplificare il quadro normativo per le imprese, incentivare l’innovazione tecnologica e sostenere la transizione ecologica.
In questo senso i fondi del Pnrr rappresentano ancora un’occasione cruciale, ma vanno utilizzati con rapidità e competenza, evitando ritardi che rischiano di vanificarne l’impatto.
Parallelamente occorre ripensare la spesa pubblica per renderla più mirata ed efficace, riducendo sprechi e privilegi a favore di investimenti che possano davvero accrescere la produttività del sistema Paese.