È sempre più guerra dei chip tra Cina e Occidente. Dopo il piano anti-Pechino siglato da Usa e Ue (di cui abbiamo parlato qui) e dopo lo stop americano sulle forniture di componenti ad alta tecnologia a Pechino, il Dragone fa la sua contromossa e va a colpire Stati Uniti ed Europa in un punto nevralgico, soprattutto in questo periodo storico: i prodotti hi-tech e le materie prime.
Il gigante asiatico ha infatti annunciato una stretta, a partire dal primo agosto, alle esportazioni di due importanti materiali per la produzione di semiconduttori. Una decisione che minaccia gli equilibri globali al pari della guerra in Ucraina (ecco il piano segreto della CIA per fermare in conflitto). Ecco perché e cosa sta succedendo.
Quali materiali la Cina non vuole più esportare
I due elementi rari e preziosissimi che la Cina ha deciso di tagliare l’export verso l’Occidente di gallio e germanio, usati per produrre per l’appunto semiconduttori, ma anche radar e altri componenti elettronici. Il gigante asiatico è il più grande produttore mondiale di gallio (94%) e tra i principali produttori ed esportatori di germanio (67%), stando all’US Geological Survey. L’Unione europea importa il 71% del suo gallio e il 45% del suo germanio dalla Cina. L’obiettivo ufficiale del Dragone è quello di “salvaguardare la sicurezza e gli interessi nazionali”, come annunciato dal ministero del Commercio cinese proprio alla vigilia della visita a Pechino del segretario al Tesoro americano, Janet Yellen, in programma dal 6 al 9 luglio.
La Repubblica Popolare intensificherà i controlli e richiederà una licenza di esportazione, segnalando “il contratto e l’utilità del carico prima della spedizione”. Il gallio e il germanio, utilizzati anche nella realizzazione di pannelli solari, sono presenti nell’elenco dell’Ue delle “materie prime critiche”, considerate “cruciali per l’economia europea” (come la roccia fosfatica, che promette di rivoluzionare il nostro futuro, come abbiamo spiegato qui). Tramite il Global Times, megafono mediatico del Dipartimento della Propaganda, la Cina ha addirittura addotto motivazioni ecologiste per le sue decisioni “giuste e virtuose”. “Chi dubita della decisione cinese potrebbe chiedere al governo americano perché detiene le più grandi miniere di germanio al mondo, ma le sfrutta raramente. Oppure potrebbero chiedere ai Paesi Bassi perché hanno incluso alcuni prodotti legati ai semiconduttori, come le macchine litografiche, nella loro lista di controllo delle esportazioni. Sono loro a mettere in discussione la catena di approvvigionamento mondiale”.
Oltre agli Usa, la Cina ha voluto colpire anche l’Ue. “Vorrei ribadire che gli articoli relativi a gallio e germanio hanno evidenti proprietà a duplice uso, sia militare sia civile”, ha sottolineato il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin, per il quale “è pratica internazionale comune implementare i controlli”. Anche gli Stati europei hanno rafforzato “i controlli sull’export di alcuni articoli. Il governo cinese ha deciso in conformità con la legge per garantire un uso per scopi legittimi, senza colpire un Paese specifico”.
La reazione europea e occidentale
La Commissione Ue si è detta preoccupata che le restrizioni all’export” imposte dalla Cina sul gallio e il germanio “non siano correlate alla necessità di proteggere la pace globale, la stabilità e l’attuazione degli obblighi di non proliferazione della Cina derivanti dai trattati internazionali”. Bruxelles ha chiesto dunque alla Cina di “adottare un approccio che preveda restrizioni e controlli all’export basati su chiare considerazioni di sicurezza, in linea con le regole del Wto (Organizzazione mondiale del commercio)“.
Il 30 giugno, inoltre, i Paesi Bassi si sono uniformati alle richieste americane e il colosso dei chip Asml dovrà d’ora in poi richiedere licenze specifiche per esportare le tecnologie per la produzione di semiconduttori, impiegati anche nella costruzione di armi (il cosiddetto settore dual-use, come sottolineato già da Pechino). Le reazioni alla Cina sono arrivate anche a “due passi” dalla Città Proibita. Il Giappone ha infatti dichiarato che controllerà come il Dragone intende implementare le restrizioni pianificate e, se necessario, “si opporrà a qualsiasi violazione degli accordi internazionali”.
Il coordinamento tra Ue e Giappone su questo terreno si è fatto più serrato, fino all’annuncio congiunto di un memorandum per rafforzare la cooperazione sui microchip. L’intento è “potenziare la resilienza della catena di approvvigionamento dei semiconduttori, compreso un meccanismo di allerta per prevenire eventuali interruzioni, in particolare per le materie prime critiche”. La Commissione europea ha inoltre varato una serie di misure per aumentare la produzione di semiconduttori in casa (il Chip Act) e potenziare la filiera sulle terre rare (il Raw Material Act). In quest’ottica la guida dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, è volata in America Latina per diversificare gli approvvigionamenti e convincere Stati come Cile e Argentina a fare affari con l’Europa invece che con la Cina.
La Cina è un pericolo per “noi”?
Già durante l’ultimo Consiglio europeo, i leader comunitari hanno confermato di vedere la Cina come “un partner, un competitor e un avversario sistemico“. Il mantra di Bruxelles è ora quello di “ridurre i rischi” per le eccessive dipendenze nei settori critici, in modo da non replicare gli errori commessi con la Russia nel settore dell’energia. Logico dunque che l’allarme più grave sia scattato proprio sui microchip e sulle materie critiche fondamentali per la transizione green, al centro dell’agenda europea per il futuro.
Fatto sta che, al netto di ogni disquisizione, la mossa cinese rischia concretamente di provocare un terremoto globale nella catena produttiva di oggetti di uso diffuso e quotidiano. I semiconduttori sono infatti componenti necessari per la produzione di microchip, a loro volta fondamentali per computer e smartphone e anche automobili. La posizione di forza della Cina è determinata non tanto dalla rarità di gallio e germanio, non presenti in natura ma sottoprodotto di lavorazioni industriali (ad esempio di zinco e alluminio), quanto dal fatto che Pechino riesce a esportarli a costi contenuti nonostante un processo di estrazione molto costoso. L’obiettivo a lungo termine della Cina è sicuramente quello di raggiungere l’autosufficienza tecnologica e competere ad armi più o meno pari con altri concorrenti asiatici e con gli Stati Uniti nel campo dei microchip. La partita è tutt’ora aperta, vedremo come si evolverà.