Le aziende italiane che potrebbero trasformare i dazi di Trump in un’opportunità di guadagno

Trump sconvolge il commercio globale: dazi Usa potrebbero colpire il Made in Italy, ma per alcune aziende diventano un'opportunità

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Francesca Secci

Giornalista

Giornalista pubblicista con esperienza in redazioni rilevanti, è specializzata in economia, finanza e geopolitica.

Pubblicato: 24 Novembre 2024 19:39

La rielezione di Donald Trump, accompagnata dalle sue dichiarazioni in campagna elettorale, minaccia di rimescolare le carte del commercio globale, con potenziali ripercussioni di peso sull’export italiano.

Gli Stati Uniti, seconda destinazione delle esportazioni italiane, si confermano un mercato chiave: nel 2023, gli scambi hanno raggiunto i 69 miliardi di euro, mentre nei primi sei mesi del 2024 hanno già toccato i 33 miliardi, segnando una crescita del 3,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Ma, paradossalmente, le politiche protezionistiche prospettate dall’ex presidente potrebbero trasformare un terreno di espansione in una corsa a ostacoli per molte aziende italiane.

Stati uniti, partner chiave dell’Italia e l’ombra dei dazi

L’export italiano verso gli Stati Uniti nel 2023 ha raggiunto un valore di circa 69 miliardi di euro, trainato da settori chiave come veicoli, farmaci e macchinari industriali. Regioni come Emilia-Romagna, Lombardia, Toscana e Veneto si confermano protagoniste, mentre realtà più piccole come Abruzzo e Molise emergono per l’alta percentuale di esportazioni destinate oltreoceano.

L’ipotesi di nuovi dazi annunciati da Trump potrebbe mettere in discussione fino a 7 miliardi di euro di interscambio, colpendo settori storici del Made in Italy come la moda e l’agroalimentare. Nonostante questo, si intravedono margini di crescita per comparti ad alta tecnologia come meccanica avanzata e aerospaziale, in grado di attrarre investimenti strategici.

Secondo uno studio di Prometeia, l’imposizione di tariffe selettive potrebbe costare all’Italia oltre 4 miliardi di euro, con il rischio di salire a 7 miliardi in caso di una revisione più ampia. I comparti industriali e tecnologici sarebbero i più esposti, ma l’intero sistema economico subirebbe ripercussioni. Anche gli Stati Uniti, però, non sarebbero immuni da contraccolpi: i consumatori americani potrebbero risentirne, così come le relazioni commerciali con i principali partner internazionali.

Protezionismo o opportunità? Le aziende italiane si giocano la partita americana

Quando le regole cambiano, c’è chi si ferma e chi accelera. L’annuncio di politiche protezionistiche negli Stati Uniti non ha intimorito alcune delle maggiori società italiane, che vedono nelle nuove dinamiche commerciali uno spiraglio per consolidare la propria presenza nel mercato americano.

Dai dati lavorati dal Corriere della Sera emerge come realtà appartenenti a settori diversi abbiano trovato negli Stati Uniti un motore di crescita e redditività, spingendo gli investitori a considerarle tra le opzioni più promettenti del panorama italiano.

L’analisi traccia una mappa di opportunità, mostrando come aziende di settori apparentemente distanti, dall’energia al lusso, dalle infrastrutture alla difesa, abbiano trovato negli Usa un terreno fertile per la crescita. Le società citate dimostrano che la diversificazione non è solo una strategia per mitigare i rischi, ma un motore che amplifica le possibilità di successo.

Il Made in Italy negli Usa, un viaggio tra i big del mercato americano che potrebbero guadagnare dai dazi

L’Italia che conquista l’America non lo fa con le mani in tasca, ma con aziende che sanno giocare duro in settori che vanno dal cemento armato al lifestyle. Webuild e Buzzi Unicem surfano sull’onda del piano infrastrutturale Usa, con Webuild che incassa il 12% del fatturato grazie alla controllata Lane, mentre Buzzi supera gli 800 milioni di ricavi, facendo schizzare le quotazioni in borsa: +48,7% per Webuild, +51,5% per Buzzi. Ma c’è di più: il nuovo contesto dei dazi potrebbe persino favorire aziende come queste, già radicate sul mercato americano e capaci di aggirare gli ostacoli con una presenza locale solida e strutturata. Il cemento, insomma, è cool quando c’è di mezzo l’America.

Sul fronte energia, Enel e Eni dimostrano che si può essere avanguardisti e tradizionalisti insieme: Enel domina con 100 impianti rinnovabili e 12 miliardi di dollari di fatturato, mentre Eni si tiene stretta la sua doppia anima, spaziando dai fossili alle rinnovabili e offrendo dividendi che fanno gola anche ai più scettici.

Leonardo, intanto, si impone come un nome che piace molto al Pentagono. Con la controllata americana Drs che contribuisce con 3 miliardi di ricavi, il gruppo cavalca la spesa militare Usa, che rappresenta il 38% del totale globale. Anche in questo caso, i dazi potrebbero rappresentare un’occasione per consolidare il rapporto con gli Stati Uniti, aumentando la competitività rispetto a concorrenti esterni. In borsa, il titolo vola a +68,3%, segnando un altro punto a favore dell’industria tricolore.

E come dimenticare il lusso? EssilorLuxottica e Campari dimostrano che il Made in Italy è sinonimo di stile e lifestyle: occhiali che collaborano persino con Meta e drink come Aperol dominano il mercato americano, generando rispettivamente il 50% e il 46% dei ricavi globali. Non solo soldi, ma anche immagine.

Chiude il cerchio Stellantis, che aggira i dazi giocando in casa negli Usa, e Prysmian, che lega il mondo con i suoi cavi e registra una crescita del 53%. E poi c’è Diasorin, che nel biotech continua a mettere radici profonde negli States, dimostrando che l’innovazione è una partita globale. Insomma, il Made in Italy sa come giocarsela e negli Usa non ci va certo per fare la comparsa. I dazi, secondo questo studio del Corriere della Sera, rappresenterebbero più una spinta che un ostacolo per queste aziende.

Trump scuote il Messico e l’Italia: aziende sotto il tiro dei dazi, ecco chi rischia grosso

Il ritorno di Donald Trump alla presidenza non promette nulla di buono per il Messico e per le aziende italiane che hanno puntato forte su di esso come piattaforma strategica per accedere al mercato americano. Uno studio condotto dal Sole24Ore evidenzia che il peso messicano crolla ai minimi storici, sintomo di un’economia che potrebbe subire duri colpi dalle nuove politiche protezionistiche, mettendo a rischio il modello basato su delocalizzazione e manodopera a basso costo. In questo scenario di crescente instabilità, alcune realtà italiane si trovano esposte più di altre.

Ferrero, ad esempio, ha trasformato il suo stabilimento di San José in un punto nevralgico per produrre Nutella e Kinder destinati agli Stati Uniti, con il 40% delle 45mila tonnellate annue che attraversano il confine. Nuovi dazi, però, potrebbero aumentare i costi e compromettere la competitività dei suoi prodotti.

Pirelli, pur avendo diversificato i mercati di destinazione dei suoi 8 milioni di pneumatici prodotti in Messico, non è del tutto immune, mentre Brembo, che ha investito mezzo miliardo di euro nell’ampliamento del sito di Escobedo, rischia di vedere compromesso un terzo del suo fatturato legato alla regione Nafta, nonostante la presenza di due impianti in Michigan rappresenti un possibile paracadute.

Anche l’industria alimentare deve fare i conti con le incognite: Parmacotto sfrutta la produzione locale per servire il mercato americano, che vale il 30% dei suoi ricavi, mentre Barilla, sebbene meno esposta, utilizza lo stabilimento messicano per il mercato locale, mantenendo però la produzione destinata agli Usa saldamente in Iowa. Per queste aziende, il rischio di trovarsi travolte dai cambiamenti è più alto, specie se i dazi dovessero concretizzarsi.