Israele prende il controllo del valico di Rafah: come cambia la guerra

Dopo averlo minacciato per settimane, Israele attacca Rafah e minaccia ulteriormente la fragile stabilità del Medio Oriente. Le truppe hanno preso il controllo del valico al confine con l'Egitto

Pubblicato: 7 Maggio 2024 08:32

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Alla fine è successo: Israele ha lanciato la sua offensiva su Rafah. Il valico al confine tra Gaza ed Egitto è stato attaccato nella sua parte orientale nella notte, con diverse vittime, per poi cadere all’alba sotto il controllo dello Stato ebraico dal lato della Striscia. Le spedizioni umanitarie verso il territorio palestinese sono state di conseguenza interrotte.

Una mossa annunciata, ma molto rischiosa per Israele e per l’intero Medio Oriente. Oltre all’escalation con le milizie filo-iraniane, potrebbe essere minacciato il già precario impianto diplomatico tra Tel Aviv e Il Cairo. Con gli Usa che, nonostante l’egemonia, si sono opposti all’operazione militare israeliana senza però riuscire a dissuadere Netanyahu.

Dopo le minacce, Israele attacca Rafah

Dopo averlo minacciato per settimane, paventandone il rischio per ricattare Hamas sull’accordo per il cessate il fuoco, Israele ha dunque deciso di procedere nella programmata offensiva sul Rafah. Ad assumere il controllo del lato di Gaza del valico di Rafah sono state le forze della 410esima Brigata dello Stato ebraico. Il passaggio di frontiera con l’Egitto, distante meno di 3,5 chilometri, è stato disconnesso dalla strada principale di Salah a-Din nella parte orientale della città, a sua volta presa dalla Brigata Givati durante l’avanzata notturna. Secondo i dati dell’Idf, circa 20 miliziani fondamentalisti sono stati uccisi e i soldati hanno localizzato (e distrutto) tre “significativi” imbocchi di tunnel, oltre ad aver sventato un attentato con un’autobomba lanciata verso un carro armato israeliano.

I primi post pubblicati sui social dalla Striscia mostravano un veicolo blindato accanto a un cartello con la scritta Gaza in inglese e le autorità di frontiera di Hamas hanno annunciato la sospensione di tutti i valichi di frontiera nella zona. Secondo un’altra dichiarazione delle Forze di Difesa israeliane, più di 150 obiettivi dei miliziani della Striscia sono stati distrutti. Un video mostra soldati di Tel Aviv sventolare la bandiera nazionale al confine in segno di vittoria, mentre il portavoce militare ha assicurato che le persone ammassate nella zona di evacuazione sono andate via, dopo l’annuncio diramato in precedenza.

Le truppe dell’Idf hanno inoltre dichiarato di aver effettuato l’operazione a seguito “di informazioni di intelligence secondo cui il valico stesso nella parte est della città era usato a scopi terroristici“. Il portavoce militare ha spiegato che “nella notte è stata avviata una precisa operazione antiterrorismo per eliminare i miliziani di Hamas e smantellare le loro strutture nelle specifiche aree della parte est di Rafah”. L’esercito ha quindi ricordato che domenica scorsa “colpi di mortaio sono stati sparati dall’area del valico verso Kerem Shalom, uccidendo 4 soldati”.

Perché Israele ha deciso di avanzare su Rafah e cosa succede ora

L’offensiva è stata lanciata dopo il fallimento dei negoziati per una tregua, in teoria ancora in corso al Cairo, in cui Hamas ha accettato una bozza di intesa definita “inaccettabile” dal governo Netanyahu. L’intento dei fondamentalisti palestinesi era quello di far passare nuovamente lo Stato ebraico come il vero “cattivone” della guerra per Gaza, mostrandone l’intransigenza e lo sprezzo per le vite dei civili. Già a inizio febbraio l’esercito israeliano aveva lanciato una serie di attacchi sulla città al confine con l’Egitto, col premier Benjamin Netanyahu, che che aveva definito Rafah come “l’ultimo bastione di Hamas” nella Striscia. Un ostacolo da abbattere, e poco importa se vi sono ammassati centinaia di migliaia di sfollati. C’è da dire, però, che l’offensiva israeliana sembra procedere “a piccoli passi” e a intensità contenuta, visti gli standard di violenza cui ci siamo tristemente abituati.

L’avanzata su Rafah sembra insomma ancora “dimostrativa”, per mettere pressione sui negoziati con Hamas e per rilanciare la propria potenza militare, vera garanzia securitaria per i rapporti diplomatici coi Paesi arabi e mediorientali. Come accennato, la mossa dello Stato ebraico rischia tuttavia di scatenare la reazione egiziana, nonostante le truppe di Tel Aviv si guardino bene dallo sconfinare.

La storia in Medio Oriente sembra ripetersi in maniera tragica: nell’ormai lontano 1978 la dapprima divisa Rafah si riunificò e Israele ed Egitto firmarono un trattato di pace che istituiva di fatto il valico. Il movimento di persone dalla Striscia all’Egitto rimase sotto il controllo ebraico fino al 2005, quando gli ultimi coloni lasciarono il territorio. La gestione del valico passò dunque a una coalizione composta da Egitto, Autorità nazionale palestinese e Ue. La vittoria elettorale di Hamas del 2006 spinse però l’Unione europea a ritirarsi dal consorzio di sicurezza, portando alla decisione congiunta di Israele ed Egitto sul blocco totale del passaggio di confine. L’isolamento della Striscia divenne totale, contribuendo in maniera decisiva alla situazione odierna.

Gli Usa ritardano la vendita di armi a Israele

Da parte loro, gli Stati Uniti si sono sempre detti contrari all’avanzata israeliana su Rafah, conoscendone bene i potenziali rischi per la tenuta del delicato equilibrio diplomatico messo in piedi e garantito a fatica da Washington. Che però non è riuscita a evitare neanche l’inasprimento degli attacchi nel resto della Striscia, contribuendo così per l’opinione pubblica internazionale alla strage di civili palestinesi. Una situazione che gli Usa stanno pagando a caro prezzo, come dimostrano le violente e laceranti proteste popolari e universitarie in gran parte del territorio americano.

La crescente tensione con il governo Netanyahu, che rimane tuttavia “non scaricabile” dagli apparati statunitensi, ha spinto gli Stati Uniti a decidere di ritardare la vendita di migliaia di armi di precisione a Israele. Lo riferisce il Wall Street Journal, citando fonti a conoscenza del dossier. Secondo quanto spiegato, la vendita ritardata riguarderebbe circa 6.500 kit di munizioni di attacco diretto (Jdam), che consentono di dirigere bombe non guidate verso un bersaglio. Secondo i funzionari americani, il ritardo è stato causato dal fatto che il Dipartimento di Stato non ha informato il Congresso dell’accordo, come è obbligato a fare prima di vendere armi oltre una certa somma. Una fonte del Congresso che ha familiarità con il processo di vendita delle armi ha affermato che la decisione è tuttavia insolita, “specialmente per Israele e soprattutto in tempo di guerra”. Facendo due più due, quindi, le reali motivazioni tornano sul messaggio di opposizione che Washington sta lanciando ai vertici israeliani.

L’Egitto inaugura la nuova Rafah nel Nord Sinai

Mentre Israele ha deciso di avanzare su Rafah, dall’altro lato del confine l’Egitto ha inaugurato New Rafah City, una delle nuove città volute dal presidente Abdel Fattah al Sisi nel Sinai e la più vicina al confine con la Striscia di Gaza. Appena 7 chilometri dalla città di confine palestinese bombardata che rischia di essere l’ultimo baluardo del conflitto. Una mossa per rimarcare la “differenza” con il bellicoso Stato ebraico e la vicinanza alla causa araba palestinese, pur restando al di sopra delle parti per conservare il dirimente ruolo negoziale di mediatore tra le parti in conflitto. Ma attenzione: non si tratta di una nuova Rafah destinata agli sfollati di Gaza, il cui esodo è tra le preoccupazioni principali dell’Egitto.

Il confronto tra le due città è impietoso: la Rafah attuale è un fazzoletto zeppo di civili e macerie, mentre quella nuova luccica di edifici nuovi di zecca, ampi viali asfaltati, scuole, ospedali e parchi. Il governatore della regione Mohamed Abdel Fadil Shousha spiega che si tratta di una sorta di “indennizzo per quanti hanno visto danneggiata o distrutta la propria casa durante la guerra senza quartiere contro i terroristi dell’Isis e non solo”, consumata tra il 2015 e il 2019 (durante la quale sono stati eliminati 1.500 tunnel di Hamas), e anche di “una pietra miliare per lo sviluppo di un territorio di cui il presidente ha detto di non voler cedere neanche un granello di sabbia“. Messaggio, questo, rivolto a Israele, che mira storicamente al controllo del Sinai come ampiamente mostrato in passato.

Il progetto egiziano va oltre la semplice retorica e la semplice vetrina e punta a trasformare in “terra promessa” quello che è un angolo di mondo in larga parte desertico. Da qui la scelta di incentivarne il popolamento, promuovendo l’agricoltura e offrendo nuovi appartamenti dotati di ogni comodità e servizi, compresa una rete digitale estesa a tutte le abitazioni. La nuova Rafah è composta al momento da 42 edifici e 272 appartamenti costruiti a tempo di record, ma l’obiettivo è di arrivare entro breve a un migliaio di unità abitative in circa 600 palazzi. In totale la città dovrebbe raggiungere i 75mila abitanti. Ovunque camion e materiale da costruzione, forse quello che i satelliti americani avevano scambiato per un ipotetico insediamento per i palestinesi sfollati. Nulla di tutto questo, anzi. La nuova Rafah vuole essere una bandiera egiziana ben conficcata sul Sinai, nella convinzione che consentire lo sfollamento forzato degli abitanti della Striscia determinerebbe l’affossamento definitivo della causa palestinese. Senza contare che i profughi dal Sudan costituiscono già un grande fardello per il Paese, che si sta faticosamente risollevando da una profonda crisi economica.