Il 2025 è appena iniziato e già il sistema carcerario italiano è stato travolto da una macabra contabilità: dodici suicidi in poche settimane. Il 2024 si era chiuso con un triste primato, 90 detenuti che hanno scelto di farla finita, il numero più alto mai registrato. Il penitenziario di Sollicciano è stato teatro dell’ennesima tragedia il 15 febbraio, appena quattro giorni dopo un caso analogo a Prato.
Il profilo delle persone coinvolte
Secondo le analisi del Garante nazionale delle persone private della libertà, il quadro dei suicidi dietro le sbarre rivela un dettaglio inquietante: molti di questi detenuti erano stati condannati per reati di maltrattamenti in famiglia, mentre un’altra quota significativa aspettava ancora il giudizio dietro le mura di una cella. La questione non si riduce a una banale conta di numeri, perché a giocare un ruolo decisivo non è solo la pressione delle mura sempre più affollate, ma anche il logoramento psicologico, il vuoto di assistenza e un sistema che non sembra in grado di offrire vie d’uscita che non siano quelle più tragiche.
Sovraffollamento e mancanza di alternative
Il tragico bollettino dei suicidi in carcere non è un incidente isolato, ma il sintomo di un sistema che cola a picco. I dati al 10 gennaio 2025 raccontano una realtà soffocante: oltre 10mila detenuti in più rispetto alla capienza ufficiale. Un tappo che salta, ma non per tutti. Circa 19mila persone, con pene residue inferiori ai tre anni, avrebbero teoricamente diritto a misure alternative. Peccato che la macchina burocratica sia più lenta di un ingorgo sulla tangenziale all’ora di punta: mancano risorse, i tribunali di sorveglianza sono intasati e l’informatizzazione è ancora un miraggio.
Secondo il Garante, il paradosso è servito: 19mila detenuti potrebbero lasciare la cella grazie a misure alternative, ma restano bloccati in un limbo di scartoffie e inefficienze. La burocrazia si trascina, mentre le carceri esplodono. Irma Conti, del Collegio Garante dei detenuti, punta il dito su un problema che va oltre la carta bollata: dietro ogni pratica ferma c’è una persona che sconta, oltre alla pena, anche l’agonia dell’attesa e l’erosione della propria salute mentale.
La situazione attuale nei penitenziari italiani
Le carceri italiane sono diventate pentole a pressione sul punto di esplodere, con il personale che arranca tra spazi insufficienti e numeri che non tornano. Tra le mura delle prigioni, molti detenuti con pene residue brevi potrebbero ottenere misure alternative come l’affidamento in prova o la detenzione domiciliare. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo la burocrazia pachidermica, che trascina i piedi e blocca chi potrebbe uscire.
Il sistema penitenziario, più ingolfato di un vecchio motore diesel, si scontra con carenze organizzative e strutturali che lasciano il destino di migliaia di persone appeso alle inefficienze amministrative. L’assenza di un sistema informatizzato agile complica ulteriormente la gestione delle richieste di misure alternative, mentre dentro le celle il disagio cresce e fuori si continua a promettere soluzioni che restano sulla carta.
Il piano del governo per l’edilizia penitenziaria
Il governo ha sfoderato un piano d’azione per allargare le carceri: 7.000 nuovi posti da realizzare nell’arco di tre anni. Il 9 gennaio, Giorgia Meloni ha dichiarato: “L’Italia intende fare la sua parte per consentire condizioni migliori a chi deve scontare una pena in Italia. Solo che la mia idea non è che questo si debba fare adeguando il numero dei detenuti o i reati alla capienza delle carceri, ma adeguando la capienza delle nostre carceri alle necessità, perché questo è quello che fa uno Stato serio. Ed è questa la ragione per la quale abbiamo nominato un commissario straordinario all’edilizia penitenziaria che ha l’obiettivo di realizzare 7000 nuovi posti in tre anni a partire dal 2025”. Un’operazione ambiziosa, che però rischia di restare l’ennesimo annuncio senza effetti concreti se non verranno risolti gli ingorghi burocratici e le inefficienze croniche del sistema.