Il vero Squid Game sulle navi cinesi, dove si muore per un calamaro

La pesca illecita in Cina è un fenomeno miliardario e terribile che vede lo sfruttamento di centinaia di lavoratori disperati tra abusi, sete, fame e freddo

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Pubblicato: 4 Gennaio 2025 01:17

L’uscita su Netflix della seconda stagione di Squid Game ha confermato e forse superato il successo della prima. E ci offre l’opportunità di parlare di una realtà nota, ma ben poco approfondita e diffusa: la pesca illegale in Cina. Il legame col gioco del calamaro è semantico e forse irrispettoso, perché sulle navi mandarine ogni anno centinaia di mozzi, mezzi schiavi e pescatori di fortuna muoiono nel miraggio di mettersi in tasca pochi soldi.

La pesca dei calamari sui pescherecci cinesi corrisponde di fatto a lavori forzati. Esattamente come nella serie sudcoreana, una flotta di disperati si propongono a uomini senza scrupoli per bisogno. L’industria ittica della Cina nasconde un girone dell’inferno.

Il Paese possiede la flotta di pesca d’altura più grande del mondo, con oltre 6.500 imbarcazioni ufficiali (più altre “oscure”), che cattura miliardi di chili di pesce e frutti di mare all’anno, la maggior parte dei quali sono calamari. Una flotta ricca e terribile, basata su traffico di manodopera, condizioni di lavoro abusive e violenza a bordo.

L’inferno e il giro miliardario della pesca dei calamari in Cina

L’anno scorso, in occasione del release di Squid Game, balzò agli onori delle cronache un’inchiesta sulla pesca (non sostenibile) dei calamari da parte delle navi cinesi. L’Outlaw Ocean Project e l’Istituto Allen scoperchiarono un vaso di Pandora fatto di sfruttamento e condizioni di lavoro disumane. Le imbarcazioni fanno la spola tra più porti, raccolgono servi nautici sulle banchine e si spingono per mesi in oceano aperto.

La Cina ha l’assoluta predominanza della pesca intensiva nel Pacifico e le sue navi si spingono fino alle coste del Perù e di altri Paesi sudamericani per riempire le stive. Una rete di quasi cento porti in tutta l’area indo-pacifica e latina messa su a suon di mazzette a governi conniventi e burocrati arrivisti. Su giganti del mare come la nave Wei-Yu 18, divenuta un simbolo della caccia cinese ai calamari, si imbarcano giovani di tutte le nazionalità. In particolare da Sud-Est asiatico e Indonesia.

Quantificare il giro d’affari, perlopiù sommerso e deviato, è estremamente difficile. Si parla comunque di più di 35 miliardi di dollari all’anno (dichiarati) e di oltre tre milioni di tonnellate di pesce (dichiarate). Oltre il 70% viene esportato e rappresenta un quinto del commercio internazionale di prodotti ittici.

La Cina consuma un terzo del pesce mondiale, gran parte del quale cattura da sé, schierando una flotta che è stata definita “la più grande che il mondo abbia mai conosciuto”. Una fetta consistente del pescato viene lavorato ed esportato negli Stati Uniti, rendendo di fatto impossibile determinare se il prodotto che finisce nei magazzini dei distributori lovali provenga da pesca illecita o sia legato a violazioni dei diritti umani.

Secondo Oceana, negli ultimi cinque anni gli Stati Uniti hanno importato calamari per un valore di quasi 700 miliardi di dollari dalla Cina e da Hong Kong. La flotta industriale a lunga distanza di Pechino conta ufficialmente 2.700 navi, che possono rimanere in mare fino a due anni, servite da imbarcazioni “di raccolta” refrigerate che riforniscono e riportano il pescato in patria.

Secondo un rapporto del 2022 pubblicato dal Parlamento europeo, metà delle imbarcazioni dedite alla pesca illegale a livello mondiale sono cinesi. Un report di Oceana ha poi evidenziato che da gennaio 2021 a giugno 2023 circa il 75% delle imbarcazioni che pescavano nelle isole Galapagos dell’Ecuador (circa 500) battevano bandiera cinese.

Una volta scaricato il pescato a terra, lo sfruttamento dei lavoratori non smette di rasentare la schiavitù: la maggior parte degli addetti alla lavorazione ittica è rappresentata da manodopera uigura, la minoranza musulmana e turcofona dello Xinjiang deportata e perseguitata dal governo di Xi Jinping.

E con “deportata” intendiamo letteralmente ciò che significa: migliaia di persone sono state ammassate con la forza su treni e bus diretti all’altro capo del Paese, nelle fabbriche della provincia orientale dello Shandong, la punta di diamante per il settore della pesca. Molti lavoratori sfruttati provengono anche dalla Corea del Nord, dalla quale passano il confine in condizioni altrettanto precarie e oscure.

Navi di morte, il costo ambientale e umano degli Squid Game cinesi

Analisti, addetti satellitari e reporter che si sono occupati del caso, hanno osservato come le navi peschino per migliaia di ore consecutive, senza concedere riposo a uomini che alla fine arrivano a morire di stenti o di fatica. In molti casi i comandanti si rifiutano di riaccompagnare i feriti o i malati a terra, somministrando cure sommarie e insufficienti.

In queste battute infinite viene pescata una quantità astronomica di cibo, insistendo su piccole zone finché non si esauriscono e infliggendo così danni incalcolabili all’ambiente e all’ecosistema marino. Ma non solo.

La maggior parte delle imbarcazioni cinesi si impegna in una pratica chiamata “trasbordo” (traduzione letterale di “transshipment”), scaricando il pescato su enormi navi cargo con stive refrigerate in modo da poter continuare a pescare con i depositi a disposizione. Oceana ha monitorato uno “squid jigger” cinese che è stato in mare per 637 giorni. Sebbene non sia illegale, il trasbordo può essere utilizzato per nascondere catture illegali o l’uso di lavoro forzato.

Dai dati è inoltre emerso che 45 imbarcazioni cinesi sono scomparse dai sistemi di tracciamento per un totale di 23mila ore, apparentemente dopo aver disattivato i dispositivi Gps, in maniera simile agli escamotage intrapresi dalla flotta fantasma russa nel Mediterraneo.

L’obiettivo di tutti è il calamaro gigante, un “mostro dei mari” che può arrivare anche a 13 metri di lunghezza. Diversi analisti coinvolti nel sistema indicano la popolazione di calamari giganti come una risorsa rinnovabile, perché si riproducono molto frequentemente. Peccato che il ritmo della pesca intensiva cinese non consenta l’adeguato ricambio e l’inversione di tendenza, decimando di fatto i banchi di questi animali.

In gran parte dei casi, i cacciatori di calamari cinesi si radunano a poco più di 200 miglia dalla costa del Perù, dove iniziano le acque internazionali. Avviene quasi tutto di notte, quando le luci di queste barche enormi fanno apparire la flotta come “una Manhattan galleggiante“. Al loro interno l’inferno, come detto.

Testimonianze raccolte nel 2019 riferiscono di lavoratori stipati come animali in cabine minuscole, con letti di legno a castello in cui si condivide una coperta in quattro persone. Intorno rivestimenti di gommapiuma fradicia, freddo e condizioni igieniche più che pessime. Chi ha sete deve bere acqua marrone dal sapore ferroso, mentre chi è cittadino cinese può accedere a bottigliette di plastica. Per lavarsi, invece, tutti devono utilizzare l’acqua di mare.

Condizioni disumane condite da violenza quotidiana: capitano e ufficiali picchiavano e vessavano costantemente l’equipaggio semplice, punendo pesantemente chi non comprendeva gli ordini urlati in cinese, impiegava troppo tempo ad armeggiare con corde e lenze o faceva ricadere in acqua i calamari pescati. Chi per disgrazia non sopravviveva, veniva conservato nelle celle frigorifere o anche inserito in bare improvvisate e buttato in mare con un peso. Una barbarie inaudita, che invece dovrebbe essere conosciuta da tutti.