Dal 2025 chi andrà in pensione dovrà fare i conti con un assegno più leggero rispetto a chi si ritirerà entro il 2024. Il calo è legato alla revisione dei coefficienti di trasformazione applicati ai montanti contributivi, che vengono aggiornati ogni due anni per adeguarsi ai cambiamenti demografici ed economici.
Il nuovo decreto del Ministero del Lavoro (n. 436/2024) stabilisce dunque una riduzione che penalizzerà chi andrà in pensione nel biennio 2025-2026.
La simulazione
Un esempio concreto aiuta a comprendere l’impatto: un lavoratore di 67 anni, con un montante contributivo di 400.000 euro, percepirà
- 22.892 euro annui se andrà in pensione entro il 2024,
- 22.432 euro annui dal 2025
subendo così un taglio di 460 euro all’anno, ovvero circa 35 euro al mese.
Il sistema contributivo e i coefficienti di trasformazione
La riduzione degli assegni è una conseguenza diretta del funzionamento del sistema contributivo, introdotto con la riforma Dini e poi ampliato con la legge Fornero. In questo sistema, i contributi versati durante la vita lavorativa, (cioè il montante contributivo) vanno a costruire il futuro assegno pensionistico tramite i coefficienti di trasformazione. Questi variano in base all’età al momento del pensionamento e vengono aggiornati ogni due anni.
Dal 2009, quando la revisione periodica è stata introdotta, i coefficienti hanno subito sette aggiornamenti: sei negativi e uno soltanto positivo. L’unico aumento, registrato per il biennio 2023-2024, aveva leggermente migliorato gli importi delle pensioni. La nuova revisione, invece, torna a seguire il trend storico: tutti i coefficienti di trasformazione calano, riducendo l’importo delle pensioni future.
Quanto si perde
Analizzando l’evoluzione degli importi pensionistici negli ultimi anni, emerge chiaramente come i lavoratori abbiano progressivamente visto ridursi il valore della pensione, a meno di compensazioni dovute all’aumento dell’età pensionabile.
Di seguito l’esempio di un lavoratore con 400.000 euro di montante contributivo:
Periodo | Pensione annua | Variazione |
---|---|---|
fino al 2009 | 24.544 euro | – |
2010-2012 | 22.480 euro | -2.064 euro |
2013-2015 | 23.304 euro | +824 euro (aumento età) |
2016-2018 | 22.800 euro | -504 euro |
2019-2020 | 22.416 euro | -384 euro |
2021-2022 | 22.300 euro | -116 euro |
2023-2024 | 22.892 euro | +592 euro |
2025-2026 | 22.432 euro | -460 euro |
Rispetto al 2009, l’assegno pensionistico di un lavoratore-tipo è diminuito di oltre 2.100 euro annui.
Rischio disagio sociale
La riduzione dei coefficienti non è solo un fatto tecnico, ma avrà conseguenze tangibili per chi si troverà a vivere con un assegno pensionistico più basso. La diminuzione progressiva degli importi potrebbe amplificare il rischio di disagio economico per molti anziani, soprattutto in un contesto di inflazione elevata e costi della vita in aumento.
Il rischio di disagio sociale è particolarmente alto nelle Regioni del Sud, dove il numero delle pensioni erogate ha superato il numero dei lavoratori. Questo, al netto del lavoro nero che sfugge alle statistiche, sta a significare che interi nuclei familiari si reggono grazie alle pensioni dei nonni o degli anziani genitori. Tale situazione, si prevede, manderà in affanno il sistema previdenziale entro il 2028.
Secondo l’analisi della Cgia, tra il 2024 e il 2028 circa 2,9 milioni di italiani raggiungeranno l’età pensionabile, e solo 2,1 milioni di essi sono attualmente impiegati nelle Regioni del Centro o del Nord.
Le strade ipotizzabili per raddrizzare la barra sono solo quattro:
- aumentare il numero dei lavoratori,
- alzare l’età pensionabile,
- tagliare gli assegni pensionistici,
- oppure spingere gli italiani verso la previdenza complementare.