L’Italia ha guadagnato una posizione nel Climate Change Performance Index (Ccpi) 2025, passando dal 44esimo al 43esimo posto. Tuttavia, il Paese rimane lontano dalle eccellenze climatiche, rappresentate da Danimarca, Olanda e Regno Unito, che continuano a dominare la classifica. Il rapporto, presentato durante la Cop29 di Baku, è stato realizzato da Germanwatch, Climate Action Network (Can) e NewClimate Institute, con la collaborazione di Legambiente per il contesto italiano.
Il Climate Change Performance Index valuta le prestazioni climatiche di 63 Paesi, più l’Unione europea nel suo complesso, coprendo oltre il 90% delle emissioni globali. Questo strumento mira a monitorare i progressi rispetto agli obiettivi stabiliti dall’Accordo di Parigi e agli impegni previsti per il 2030.
Le performance dei Paesi sono analizzate sulla base di quattro parametri principali:
- Emissioni di gas serra: rappresentano il 40% del punteggio totale e considerano sia i livelli attuali sia le tendenze di riduzione;
- Sviluppo delle energie rinnovabili: contribuisce al 20% del punteggio, valutando l’adozione e l’espansione di tecnologie pulite;
- Efficienza energetica: anch’essa pesa per il 20%, analizzando i progressi nella riduzione degli sprechi e nell’ottimizzazione dell’uso delle risorse;
- Politica climatica: copre il restante 20% e si concentra sugli impegni governativi e sulle iniziative per contrastare i cambiamenti climatici.
Indice
L’Italia tra ambizioni e ritardi
Nonostante il piccolo miglioramento in classifica, l’Italia continua a evidenziare significativi ritardi rispetto ai Paesi di vertice. Le politiche climatiche e l’adozione di energie rinnovabili non sono ancora sufficientemente avanzate per garantire un impatto positivo concreto e duraturo.
Il rapporto sottolinea che l’Italia necessita di un’accelerazione decisa nell’implementazione di strategie per la riduzione delle emissioni e nell’incentivazione delle tecnologie sostenibili. Resta essenziale un impegno più ambizioso per allinearsi agli obiettivi climatici globali e migliorare la propria posizione nella classifica internazionale.
Italia e crisi climatica, un cambio di passo è indispensabile
Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente, sottolinea con forza le criticità del nostro Paese nel campo delle politiche energetiche e climatiche. La visione miope che caratterizza l’approccio italiano non solo non contribuisce a una riduzione delle bollette per famiglie e imprese, ma aumenta la dipendenza energetica da Paesi esteri politicamente instabili. Questo, nel contesto di una crisi climatica che si aggrava, rappresenta un grave ostacolo per il futuro del Paese.
Gli effetti della crisi climatica sono sempre più visibili in Italia, con un aumento della frequenza e dell’intensità degli eventi meteo estremi. Questi fenomeni non solo mettono a rischio la sicurezza della popolazione, ma influiscono in modo significativo sul settore produttivo e sull’agricoltura, comparti vitali per l’economia nazionale. Paradossalmente, proprio questi settori avrebbero tutto l’interesse a sostenere politiche climatiche coraggiose, come quelle previste dal Green Deal europeo, volte alla riduzione delle emissioni di gas serra.
Gli interventi necessari per un cambio di rotta
Per risalire la classifica internazionale delle performance climatiche e affrontare seriamente la crisi climatica, l’Italia deve attuare politiche più ambiziose e interventi mirati in settori chiave:
- Mobilità sostenibile: incentivare il trasporto pubblico, elettrico e a basse emissioni;
- Efficienza energetica nell’edilizia: promuovere la riqualificazione energetica degli edifici e l’adozione di tecnologie innovative;
- Rinnovabili e innovazione: puntare su fonti di energia pulita, reti intelligenti e sistemi di accumulo per ridurre la dipendenza dalle fonti fossili e abbandonare definitivamente l’opzione del nucleare.
L’obiettivo climatico per il 2030
L’Italia ha il potenziale per colmare il proprio ritardo climatico e centrare l’ambizioso obiettivo di ridurre del 65% le emissioni di gas serra entro il 2030, in linea con il limite di 1,5°C fissato dall’Accordo di Parigi. Per riuscirci, è fondamentale semplificare e accelerare gli iter autorizzativi di impianti e infrastrutture energetiche innovative, garantendo che il sistema Paese operi verso la lotta alla crisi climatica e l’indipendenza energetica.
Il messaggio è chiaro, spiega Ciafani: “l’Italia deve voltare pagina, adottando una strategia lungimirante che consideri la crisi climatica come una priorità assoluta. Solo così sarà possibile costruire un futuro più sostenibile, competitivo e resiliente per il Paese”.
Le criticità del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima
L’Italia continua a soffrire di una mancanza di ambizione nella sua politica climatica, come dimostra il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (Pniec). Questo documento, fondamentale per tracciare la strategia energetica del Paese fino al 2030, si distingue per obiettivi insufficienti e per un approccio che rischia di compromettere la competitività dell’Italia sia a livello europeo che globale.
Il Pniec prevede una riduzione delle emissioni di gas serra del 44,3% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Questo dato non solo è inferiore al già insufficiente 51% indicato dal Pnrr (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), ma risulta ben lontano dal necessario per allinearsi agli obiettivi dell’Accordo di Parigi e per contribuire al contenimento del riscaldamento globale entro 1,5°C.
Uno dei principali problemi del Pniec è l’adozione di un approccio basato sul pragmatismo e sulla cosiddetta neutralità tecnologica. Questo atteggiamento consente di includere soluzioni controverse e poco efficaci, tra cui:
- CCS (cattura e stoccaggio del carbonio): una tecnologia costosa e non ancora pienamente operativa, che potrebbe sottrarre risorse a interventi più immediati e concreti;
- Nucleare: una scelta che, oltre a suscitare forti opposizioni sociali, richiede tempi lunghi e ingenti investimenti, rischiando di rallentare ulteriormente la transizione energetica.
Queste strategie vengono definite false soluzioni, poiché non solo ritardano l’azione climatica necessaria, ma distolgono attenzione e risorse da opzioni più sostenibili ed efficaci, come l’adozione di energie rinnovabili e l’efficienza energetica.
Impatti economici e competitività internazionale
La debolezza del piano italiano non si riflette solo sull’ambiente, ma ha conseguenze dirette anche sull’economia. Mantenere un approccio arretrato e poco ambizioso potrebbe rendere l’Italia sempre meno competitiva rispetto ai Paesi che stanno investendo con decisione nella transizione ecologica. A livello europeo, questa mancanza di visione rischia di isolare il Paese, allontanandolo dalle opportunità offerte dai fondi e dalle strategie climatiche comuni.
Per garantire un futuro sostenibile e competitivo, l’Italia deve rivedere radicalmente il suo Piano Nazionale Integrato Energia e Clima, puntando su:
- Obiettivi più ambiziosi per il 2030, in linea con gli standard europei e con il Green Deal;
- Investimenti in energie rinnovabili, reti intelligenti e accumuli, per accelerare la decarbonizzazione;
- Politiche mirate alla semplificazione burocratica, per favorire la realizzazione di progetti sostenibili in tempi rapidi.
Un cambio di rotta è indispensabile non solo per affrontare con urgenza la crisi climatica, ma anche per garantire all’Italia un ruolo di rilievo nella transizione ecologica globale.
Obiettivi ambiziosi per la riduzione delle emissioni e la transizione energetica
Il Paris Compatible Scenario, elaborato da Climate Analytics, mostra come l’Italia possa ridurre le proprie emissioni climalteranti di almeno il 65% entro il 2030. Questo risultato è raggiungibile integrando il 63% di rinnovabili nel mix energetico e il 91% nel mix elettrico entro lo stesso anno. Il piano prevede di raggiungere il 100% di rinnovabili nel settore elettrico entro il 2035, accompagnato dal phase-out del carbone entro il 2025 e dal phase-out del gas fossile entro il 2035. Questi interventi sono fondamentali per garantire la neutralità climatica entro il 2040. Seguire questo percorso è cruciale per affrontare la crisi climatica ed energetica, che minaccia la stabilità economica e ambientale del Paese. Solo attraverso un impegno deciso sulle energie rinnovabili e sulla riduzione dell’uso delle fonti fossili, l’Italia potrà costruire un futuro sostenibile e competitivo.
Classifica Germanwatch, nessun Paese ancora all’altezza della sfida climatica
Per il secondo anno consecutivo, le prime tre posizioni della classifica Germanwatch non sono state assegnate. Nessun Paese ha raggiunto una performance sufficiente per contribuire in modo decisivo a fronteggiare l’emergenza climatica e mantenere il riscaldamento globale entro 1,5°C.
Nonostante la crescita delle energie rinnovabili, molti Paesi continuano a prolungare l’uso dei combustibili fossili, con il gas in particolare ancora largamente utilizzato. Questa lentezza nell’abbandonare le fonti fossili ostacola i progressi necessari per rispettare gli obiettivi climatici globali;
- Paesi virtuosi: la Danimarca si conferma al quarto posto, grazie a una significativa riduzione delle emissioni e allo sviluppo delle rinnovabili. A seguire si trovano l’Olanda (5° posto) e il Regno Unito (6° posto), che registra un notevole balzo in avanti rispetto al 20° posto dell’anno precedente, trainato da una politica climatica ed energetica più ambiziosa;
- Paesi in coda alla classifica: sul fondo della classifica si confermano gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e l’Iran, grandi utilizzatori ed esportatori di combustibili fossili. La loro dipendenza da queste fonti rappresenta uno dei principali ostacoli nella lotta contro la crisi climatica.
La classifica sottolinea come la corsa contro il tempo sia ancora in atto: per vincere la sfida climatica, è indispensabile accelerare la transizione energetica e ridurre la dipendenza globale dalle fonti fossili.
Cina e Stati Uniti in difficoltà, il G20 frena la lotta al clima
La Cina, primo responsabile delle emissioni globali, scivola al 55° posto nella classifica Germanwatch, perdendo quattro posizioni rispetto all’anno precedente. Nonostante il forte sviluppo delle energie rinnovabili, il continuo ricorso al carbone provoca un aumento delle emissioni.
Gli Stati Uniti, secondo emettitore globale, rimangono al 57° posto. Con la nuova amministrazione, non si prevedono grandi cambiamenti rispetto alle politiche climatiche. Tuttavia, sarà difficile smantellare gli investimenti green avviati dall’Inflation Reduction Act (Ira) durante il mandato di Biden, che aveva dato impulso a una politica più sostenibile.
Tra i membri del G20, che rappresentano il 75% delle emissioni globali, solo il Regno Unito (6° posto) e l’India (10° posto) si posizionano nella parte alta della classifica. Al contrario, molti Paesi del G20 si trovano nella parte bassa, con Sud Corea (63° posto), Russia (64° posto) e Arabia Saudita (66° posto) che registrano le peggiori performance climatiche.
La situazione complessiva del G20 evidenzia una mancanza di leadership climatica da parte delle maggiori economie mondiali. Senza un’inversione di tendenza da parte di questi Paesi, sarà impossibile raggiungere gli obiettivi climatici globali e contenere il riscaldamento entro i limiti critici.
Unione europea, ruolo centrale nella lotta climatica
L’Unione europea (17° posto) si mantiene stabile al centro della classifica Germanwatch, con ben 16 Stati membri nella parte medio-alta. Tra questi figurano Paesi virtuosi come Danimarca, Olanda e Svezia, accanto a realtà come Portogallo, Spagna e Germania.
La Germania, maggiore economia del continente, scende al 16° posto, penalizzata dalla mancanza di azioni incisive nei settori del trasporto e degli edifici, nonostante i progressi significativi nelle rinnovabili. Questo rallenta la capacità dell’Unione di guidare una trasformazione climatica ambiziosa.
Di fronte agli effetti della crisi climatica, che colpisce duramente l’Europa, è urgente assumere una posizione di leadership globale. L’Ue dovrebbe puntare a:
- Ridurre le emissioni climalteranti del 65% entro il 2030 e dell’82% entro il 2035;
- Raggiungere la neutralità climatica entro il 2040.
Un’azione coordinata e ambiziosa dell’Unione europea non solo garantirebbe un futuro sostenibile, ma potrebbe fare da modello per altre regioni del mondo nella lotta contro il cambiamento climatico.
La finanza climatica è la chiave per accelerare la transizione energetica nei Paesi in via di sviluppo
Per accelerare la transizione energetica e affrontare con successo l’emergenza climatica, non è sufficiente un’azione climatica ambiziosa da parte dei Paesi industrializzati ed emergenti. È fondamentale che anche i Paesi in via di sviluppo adottino politiche climatiche altrettanto ambiziose. In questo contesto, il ruolo della finanza climatica è cruciale, specialmente durante la Cop29 in corso a Baku.
È indispensabile raggiungere un accordo ambizioso che mobiliti almeno 1.000 miliardi di dollari l’anno di aiuti pubblici, come richiesto dall’Alleanza dei piccoli Stati insulari (Aosis). Questi fondi non solo serviranno per la decarbonizzazione dell’economia e l’adattamento ai cambiamenti climatici, ma anche per la ricostruzione economica e sociale delle comunità vulnerabili colpite da disastri climatici sempre più frequenti e devastanti.
Le risorse necessarie possono essere rese disponibili attraverso la tassazione delle attività a forte impatto climatico e il phasing-out dei sussidi ai combustibili fossili, strategie che potrebbero mobilitare fino a 5.000 miliardi di dollari l’anno.