Russia, fine della guerra? Che fine farà Putin

Putin deve fare i conti non solo con l'Ucraina, ma anche con le pressioni del partito della guerra. Gli uomini forti del Cremlino sono in grado di spodestarlo?

Pubblicato: 12 Maggio 2023 22:00

Foto di Maurizio Perriello

Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Dalla Russia profonda sembra non ci siano dubbi: la parabola politica di Vladimir Putin è destinata a tramontare definitivamente. Non è la prima volta che i detrattori o gli avversari del presidente russo mettono in giro voci più o meno verosimili per screditare (ancor di più) l’immagine del capo del Cremlino (come nel caso della presunta malattia che lo avrebbe colpito).

Le critiche da ogni fronte sono piovute fin dalla presa di coscienza, oltre un anno fa ormai, del fallimento della guerra lampo per prendere Kiev e rovesciare il governo Zelensky. Le più recenti frizioni con il Gruppo Wagner, sempre più insofferente alla coesistenza con l’esercito regolare su terra ucraina e consapevole della sua accresciuta influenza politica, hanno spinto Putin a tentare il rilancio con la propaganda. Ma anche la Parata del 9 maggio a Mosca è stata un mezzo fiasco. E gli uomini forti della Russia appaiono sempre più forti e in grando di “detronizzare” Putin. Ecco perché e chi sono.

Intanto l’esercito è in crisi nera: ecco la minaccia che fa tremare Putin.

Da un 9 maggio all’altro: Putin perde consensi

Nei primi giorni di maggio, la Russia ha annunciato il reclutamento di soldati nella città occupata di Mariupol. Niente di strano per chi conosce la guerra. Più interessante invece quello che ha detto Putin in occasione dell’annuncio, ribadendo quanto già detto al Comitato per le autonomie locali: “I residenti delle nuove regioni hanno combattuto per molti anni per il diritto di stare insieme alla Russia“. E ancora: “La gestione nelle nuove regioni della Federazione Russa può essere considerata di successo, nonostante la presenza di più problemi in esse che in altre regioni”.

Retorica di regime, che ormai sembra non attecchire più in quegli strati di popolazione tradizionalmente sostenitori del presidente. La Parata del 9 maggio, festa nazionale in Russia in cui si celebra la vittoria sui nazisti nella Seconda Guerra Mondiale (chiamata da quelle parti, non a caso, “Grande guerra patriottica”), è stata in questo senso emblematica del declino del putinismo e della crescente avversione popolare alla’operazione militare speciale in Ucraina. Per la prima volta dal 2007 a sfilare sulla Piazza Rossa c’era un solo carro armato, un T-34-85, inutilizzabile veterano del secondo conflitto mondiale. Anche la sfilata delle forze aeree è stata annullata. Lo “sfoggio” sarebbe stato troppo per un Paese che non riesce a vincere sul campo della Novorossiya, come viene considerata in Russia (anche nei libri di scuola primaria) il sud dell’Ucraina – corrispondente in sostanza al Donbass e alla penisola di Crimea. Solo sei giorni fa le immagini di due droni che esplodevano sul Cremlino erano sembrate scuotere il senso di sicurezza dei russi. A questo si aggiungono i timori dell’opinione pubblica per la tanto annunciata controffensiva ucraina. Due motivi di inquietudine, che probabilmente hanno contribuito ai festeggiamenti sottotono.

I sondaggi pubblici a campioni di popolazione russa sembrano tuttavia non evidenziare un significativo calo di consensi nei confronti di Putin e del suo entourage. Tuttavia think-tank occidentali e servizi di intelligence hanno osservato altri fattori spia dell’opposizione al regime moscovita. Il primo è la “reticenza” di sempre più mobilitati e “mobilitabili” all’arruolamento nell’esercito russo (che avviene attraverso modi davvero poco ortodossi, come abbiamo spiegato qui). In territori remoti della Federazione, come Buriazia e Zabajkal (ma anche e soprattutto il Daghestan), che hanno offerto migliaia di leve per la guerra in Ucraina, si hanno sempre più testimonianze di defezioni e diserzioni. Per non parlare di regioni più prossime a Mosca, come quelle di Sverdlovsk e Rostov, in cui si sono registrati episodi di autentica disobbedienza civile e militare, come incendi dolosi agli uffici di reclutamento dell’esercito russo. L’altro fattore è il notevole aumento di cittadini russi che si sono trasferiti all’estero: quasi mezzo milione dall’annuncio della mobilitazione parziale (di cui avevamo parlato qui).

Il potere di Putin

In sostanza il popolo russo sostiene in gran parte Putin, ma vorrebbe anche la fine della guerra. Chiede pane e pace, come nel 1917 prima della Rivoluzione Russa. Sulla leadership di Vladimir Putin andrebbe però fatta un’analisi più approfondita. Non foss’altro che, come hanno sottolineato esperti di Russia come Orietta Moscatelli, esistono un “Putin singolo” e un “Putin collettivo”. Il primo resta ancora sulla cresta dell’onda per la stragrande maggioranza dei cittadini della Federazione, grazie anche alla cementificazione dell’opinione pubblica attorno a due fulcri principali:

  • la lotta al nazismo, con evidenti richiami al senso di accerchiamento, alla sindrome da invasione e alla liberazione del suolo nazionale dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale – e che ora nella retorica moscovita è diventata lotta armata contro i “nuovi nazisti” d’Ucraina e d’Europa manovrate dagli Stati Uniti;
  • la lotta al terrorismo, autentico e prolifico fil rouge di vent’anni di putinismo, dal sostegno agli Usa dopo l’11 settembre alle operazioni in Cecenia, Afghanistan e Siria.

Putin individuo, per così dire, è però chiamato alla grande prova del voto presidenziale del 2024, oltre che del campo di battaglia. Per questo motivo quest’anno sarà decisivo per il destino del novello “zar”, per molti segnerà anzi la sua inevitabile fine politica. Perché a risultare pesantemente indebolito è il “Putin collettivo”, ossia il presidente russo inteso come punta di un sistema iceberg che comprende galassia degli oligarchi, aziende di Stato, ministeri e Consigli federali. Per non parlare di realtà parallele di potere come quella rappresentata dai siloviki (di cui abbiamo parlato qui) e da organizzioni paramilitari come il Gruppo Wagner (con o contro Putin? Lo abbiamo spiegato qui).

Proprio la società privata di mercenari guidata da Evgenji Prigozhin, in aperta e profonda rottura con lo Stato maggiore russo (ufficialmente) per la mancanza di munizione al fronte e la battaglia sanguinosissima per Bakhmut, è parte integrante di quel “partito della guerra” che fa pressioni alle spalle di Putin. Al suo fianco, alleato militare ma non politico, c’è il leader ceceno Ramzan Kadyrov, comandante delle truppe che più si sono spese sul campo, soprattutto nell’ambito della guerriglia. Completano lo schieramento il presidente della Duma, Vjačeslav Volodin, e i deputati “falchi” di Russia Unita e del Partito Comunista.

Gli (altri) uomini forti del Cremlino

Il sistema che opera “intorno” a Putin comprende anche uno schieramento “pragmatico”, che cioè prende decisione operative importanti e fa in modo che la macchina statale e militare abbia olio sufficiente per far scorrere tutti gli ingranaggi. Inutile dire che gli attriti e la ruggine non mancano. Parliamo del primo ministro russo dal 2020, Mikhail Misustin, di Sergej Chemezov, amministratore delegato di Rostec, e di Igor’ Sečin, amministratore delegato di Rosneft.

Rostec è il colosso russo dell’alta tecnologia, che coltiva interessi miliardari dalla modernizzazione militare a quello dei sensori quantistici e delle comunicazioni wireless di quinta generazione. Un ambito in cui la Russia vuole primeggiare, al netto delle difficoltà causate dalla spietata concorrenza cinese e dalle penalizzazioni materiali imposte dalle sanzioni occidentali (sistematicamente aggirate, è vero, ma con notevole dispendio di risorse e “mazzette” in fase di import-export). Seppur all’interno della concetrazione industriale voluta e costruita da Putin nel corso di un decennio, con oltre 430 società coinvolte, la Rostec ha alzato presto la testa, conscia del suo potere pratico. Lo stesso discorso vale per la Rosneft, la public company Rossiyskaya neft (“Petrolio russo”) che manovra i fili del comparto energetico dell’intera Federazione, dall’esplorazione all’estrazione fino alla raffinazione e alla vendita di petrolio, gas naturale e prodotti petroliferi.

Gli altri uomini forti del Cremlino sono senza dubbio quelli più “vicini” a Putin, sia per retorica sia per geografia degli uffici. A partire da Nikolaj Patrushev, segretario del Consiglio di Sicurezza, da Aleksandr Bortnikov, capo dell’FSB, e da Sergej Nariskin, direttore del SVR (intelligence estera). Senza dimenticare il ministro Sergej Lavrov, il capo della diplomazia del Cremlino, l’unico grande “tecnico” scelto anni fa per “mediare” tra le varie parti in gioco, oltre che con le altre nazioni. Come non citare infine gli oligarchi, che in Russia si dividono in due schieramenti principali:

  • oligarchi di Stato (allineati con Putin o silenti): Aleksej Miller (Gazprom), Igor Secin (Rosneft), German Gref (Sberbank), Sergej Chemezov (Rostec);
  • oligarchi privati (“indecisi” o “ambigui” sul sostegno a Putin): Oleg Deripaska (Basic Element, magnate dell’alluminio); Mikhail Friedman (Alfa Group, Alfa Bank, di origini ucraine); Roman Abramovic (agente di collegamento e negoziatore).

Lotta per il potere: chi può sostituire Putin?

Abbiamo chiaro il quadro del “sistema Putin”, con tutti gli attori coinvolti nella partita a scacchi del Cremlino. Ma c’è qualcuno che può prevalere sugli altri, raccogliendo l’eredità del presidente russo? Il blocco dei siloviki è forse il più “forte” e “anonimo”, e pertanto preferisce non emergere o mostrarsi a livello di individualità, lasciando ad altri l’onere di apparire sul palcoscenico del mondo. Alla domanda proviamo a rispondere rilanciando un’analisi che proviene direttamente dalle stanze buie del Cremlino e che vede in una nuova formazione politica il possibile “cavallo di Troia” tramite il quale realizzare un regime change a Mosca. Gli interessi sono dunque gli stessi di Ucraina, Stati Uniti e alleati occidentali. Il che basta e avanza per poter decollare.

Le ambizioni politiche del cosiddetto fianco “turbopatriottico”, che fa dell’esito della guerra il giudice supremo del destino del regime, si sono rivelate formalmente il 1° aprile. Sulla scena politica russa è apparso un nuovo partito: l’Angry Patriots Club (KRP). I punti fermi: l’amore per la Russia e la prontezza a resistere al possibile tradimento di rappresentanti del governo e delle imprese filo-occidentali. Uno statuto a dir poco provocatorio, incarnato dalla figura del presidente Pavel Gubarev. Le parole del manifesto lasciano poco spazio a interpretazioni: “Condividiamo i concetti di Patria e potere. Ci sono molti rapinatori, furfanti e sabotatori al potere che sono ostili agli interessi nazionali. Noi, a nostra volta, siamo loro ostili e persino rivoluzionari […] Senza una rivoluzione, non vinceremo. E in questo senso il KRP è una forza potenzialmente rivoluzionaria“. E poco importa se il membro più influente del KRP, Igor Strelkov, abbia subito preso le distanze dalla posizione di Gubarev.

Opinione personale o meno, Strelkov ha comunque detto una cosa interessante: “Ogni rivoluzione inizia con un colpo di Stato”. Minaccia o semplice provocazione, non è dato sapere. Si consideri però la convergenza d’intenti tra il KRP e un altro personaggio di spicco che abbiamo già citato: Evgenji Prigozhin. Strelkov e “lo chef di Putin” hanno concordato su vari punti (gli analisti russi li chiamano “punti in comune nell’intero spettro della destra russa”), primo fra tutti il duro giudizio sulle questioni operative sulla gestione dell’operazione militare speciale, nonché sulla strategia politica di Putin.

Prigozhin sarà il prossimo leader russo?

Nei giorni scorsi Prigozhin ha pubblicato un testo del programma del nuovo turbopatriottismo, il cui motivo principale era un appello per il completamento dell’operazione militare in Ucraina. Un testo importante, perché con esso il capo della Wagner si erge a portavoce del sentimento della popolazione, vestendo contemporaneamente i panni di signore della guerra e di “leader basso” che vive da vicino il dramma dei soldati e delle famiglie che li hanno visti partire per il fronte.

“La Russia dice di aver raggiunto i risultati che aveva pianificato. Lo ha fatto distruggendo gran parte della popolazione maschile attiva dell’Ucraina e intimidendone un’altra parte. La Russia si è garantita lo sbocco sul Mar d’Azov e su un grande pezzo del Mar Nero, occupando una grossa porzione di territorio ucraino e creando un corridoio di terra verso la Crimea. Ora resta solo una cosa da fare: prendere saldamente piede, legare a noi quei territori che già sono nostri”. Prigozhin detta la strategia militare giusta, di chi la guerra la fa sul campo e comanda una banda di mercenari che obbediscono solo al denaro. L’uomo forte piace ai russi, basti considerare questo.

Numerosi osservatori caratterizzano questo testo non solo come una visione turbo-patriottica alternativa, ma come l’inizio del gioco politico pubblico di Prigozhin. Un uomo forte che conta sul sostegno di quella parte della società che è stanca del flusso di informazioni opprimente del Cremlino e vuole la fine del conflitto ucraino. Più scettico il fronte di chi vedrebbe il capo della Wagner candidato alle prossime presidenziali russe. A quel punto correrebbe uno dei volti, noti o meno, del nuovo KRP. Anche a livello locale, visto che quest’anno ci sarà il rinnovo dei parlamenti di 16 regioni della Federazione e l’elezione di 20 capi di amministrazioni locali. Lo stesso Strelkov afferma che si può giungere al successo solo “a patto che una forza patriottica organizzata salga al potere, opponendosi direttamente alla confusione e al collasso”.

Prigozhin e il partito turbopatriottico vogliono la fine della guerra e (forse) di Putin, ma non della Russia. Come la Nato, perché portare la Russia integralmente dalla parte occidentale passa dalla cacciata di Putin dal Cremlino. Con molta fantasia si potrebbe immaginare un sodalizio. Moltissima fantasia. Oppure no?