Nel cuore di Napoli, dove nasce l’abito perfetto

Storia di un capo nato nei primi anni del Novecento con puntiglio quasi ossessivo, a Napoli, strappando lo scettro dell'eleganza alla rigidità di Savile Row

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Paolo Gelmi

Esperto di moda e lifestyle maschile

Esperto di moda e lifestyle, è stato direttore di svariate riviste cartacee nel settore luxury.

Pubblicato: 4 Ottobre 2022 08:56

Di scrupolo e di metodo. Di cuore. Ma soprattutto di mani che dipingono curve con la grazia sottile di un filo. Due grandi scuole sartoriali dettano da secoli i canoni dell’abbigliamento maschile: la scuola inglese e la scuola italiana, con il ramo napoletano. In particolare la giacca, che è il capo più importante nel guardaroba di un uomo, ma non solo. Dato che le donne la indossano, giocando con la seduzione, per una scelta serale.

Lo stile della giacca definisce tutto l’abito, che diventa da giorno e da ufficio nella versione più classica o da tempo libero e da sera, ammorbidendosi o impreziosendosi nei ricami più estrosi. Sia la sartoria inglese che quella napoletana hanno contribuito in modo decisivo all’evoluzione dello stile della giacca, come la conosciamo oggi e la possiamo ammirare sulle passarelle presentate due volte l’anno, attraverso le collezioni dedicate alla stagionalità.

Tutto parte dall’eleganza di Lord Brummel, simbolo dandista nell’età georgiana, che diventò un vero e proprio modello di riferimento dell’eleganza, creando il moderno abito da uomo. I suoi abiti erano realizzati a mano ed enfatizzavano le forme del corpo, grazie al taglio e alla qualità del tessuto. Un’eleganza semplice e non decorativa alla francese, che aprì la strada allo sviluppo di un’aerea di Burlington Estate, nel quartiere londinese di Mayfair, e prese il nome dalla moglie del conte Burlington, Lady Dorothy Savile, proprietario di quel terreno.

Così nasceva Savile Row, quadrilatero ancora oggi di quelle case sartoriali che iniziarono a stabilirsi in quella via nei primi anni dell’800, creando in poco tempo aziende produttrici di vestaglie, uniformi, abiti formali e da caccia, per il bel mondo inglese e non solo. Nel periodo tra le due guerre gli obblighi formali di abbigliamento maschile cambiarono, lasciando spazio alla divisa militare e diminuendo l’importanza di Savile Row. La grande ripresa ci fu soltanto negli Anni ’60, quando tornò ai suoi storici fasti per proseguire senza incertezza fino ai nostri giorni con le case sartoriali come Henry Pool & Co, Anderson & Sheppard, Huntsman.

Anderson&Sheppard

Partiamo dalla definizione di “bespoke”, dal verbo inglese “bespeak”, che ha avuto nel tempo diversi significati tra cui “parlare”. Ma è solo nel XVI secolo che “bespeak” acquisì un altro significato: “ordinare in anticipo”, mentre la parola “bespoke” ha origine in Savile Row e indica un abito realizzato in quella zona, seguendo le richieste del cliente.

Un abito “bespoke” è tagliato e realizzato da solo artigiani esperti. Ogni cartamodello è specifico per il cliente e l’abito finito richiede almeno 50 ore di lavoro a mano e alcuni fitting con il cliente. Un vero servizio di prima classe che dopo l’acquisto comprende anche la stiratura, la riparazione e la sostituzione dei bottoni. Dalla leggendaria sartoria inglese arriviamo a definire quella napoletana che adattò, a partire dal Settecento, l’abbigliamento rigido e pesante del mondo britannico al clima mediterraneo, creando uno stile morbido e leggero.

La storia della sartoria napoletana è una storia di comunità, che ruota attorno agli atelier di alcuni precursori come Roberto Combattente e Angelo Biasi, nei primissimi anni del Novecento. In quei laboratori entrarono giovani apprendisti che si trasformarono in una nuova generazione di maestri come Antonio Panico e Mario Formosa, Renato Ciardi e Luigi Solito, che poi a loro volta aprirono i propri atelier sartoriali, diffondendo lo stile partenopeo.

Un caso a parte è Gennaro Rubinacci, nato come antiquario ed esperto d’arte, che vendeva opere anche al Re Vittorio Emanuele III. Un giorno, il re chiese a Rubinacci dove potesse comprare gli abiti che gli vedeva indossare. Rubinacci presentò il re al suo sarto, Salvatore Morziello, che nel 1916 aveva aperto un negozio assieme a Giovanni Serafini, zio di Rubinacci. Morziello era uno di quegli apprendisti o, meglio guaglione di bottega bravi manualmente ma privi di quella cultura che portava all’eloquenza dialettica, perciò Rubinacci divenne l’intermediario tra la famiglia reale e il sarto.

Rubinacci - Napoli

Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Morziello fu costretto a chiudere e Serafini propose a Rubinacci di aprire una nuova sartoria. Fu così che nel 1931 nacque “London House”. L’idea di London House nasceva dalla passione di Rubinacci per l’arte e la sartoria, insieme al suo tagliatore, Vincenzo Attolini, che portò ad una vera propria rivoluzione, reiventando i pesanti completi inglesi con tessuti diversi, ammorbidendo e svuotando le giacche.

Divenuto fornitore della casa reale italiana e su suggerimento proprio del re Vittorio Emanuele III, aggiunse al suo logo una corona con sopra le iniziali LH. Solo nel 1970 il figlio di Rubinacci, Mariano, cambiò ufficialmente il nome della azienda in Rubinacci. Il percorso di Vincenzo Attolini partì dall’invenzione di una giacca dalle linee morbide e leggere, andando contro la moda del tempo, provocando scetticismo iniziale anche tra i suoi colleghi. Alla fine le sue idee vennero accolte da tutti, tanto da diventare il padre fondatore della sartoria napoletana.

Pur partendo da un laboratorio modesto, la figura di Attolini rimarrà legata a London House e in seguito a Rubinacci, dove rimase come maestro tagliatore fino alla morte arrivando a vestire personaggi come Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Antonio De Curtis in arte Totò, oltre a teste coronate come il Duca di Windsor.

La foggia sartoriale napoletana ha origine dal tessuto morbido e dall’assenza di imbottitura, come fosse una seconda pelle. Le regole dettate dalle sartorie di un tempo, ma che si ritrovano nelle aziende laboratorio di oggi, sono identiche: la giacca non è intelata e di solito è mezza foderata, la sua tasca detta “a pignata” ha una forma tondeggiante, come fosse una pentola (ecco da dove deriva il termine, ndr), e il taschino è tagliato a barchetta, le spalle seguono la forma naturale come fosse una camicia e in alcuni modelli ha anche una piccola arricciatura, la cosiddetta “manica a mappina”. E l’allacciatura è monopetto con tre bottoni su due.

Oggi le dodici mani degli inizi sono diventate 280. Quelle di 140 sarti che lavorano nel laboratorio, i migliori della scuola partenopea. Una scuola tanto rigorosa da rifiutare addirittura clienti pur di rimanere fedele alle sue regole che ne hanno qualificato il nome in tutto il mondo.

Qualche numero, per rendere l’idea: ventidue sono i minuti necessari per cucire un’etichetta. Una misura su tutte di quell’attenzione al dettaglio che è uno dei predicati dell’eccellenza. O la scelta dei tessuti, per la maggior parte in esclusiva, che è fatta con puntiglio quasi ossessivo. La distribuzione curata tanto quanto la produzione avviene attraverso una rete elitaria di negozi, anche all’estero, con una esclusiva nelle principali città. Per i buyer ci sono gli showroom, oppure per i clienti che desiderano toccare con mano lo spirito delle origini c’è il monomarca di Napoli, nella centralissima via Filangeri. Camminando per la loro fabbrica, si sente spesso parlare dialetto. Il gesso anticipa una giacca che nasce, qua si cuce una tasca e si ricama un’asola. Da un pezzo di stoffa nasce la perfezione da indossare. Una scuola con grandi maestri straordinari e mani che già sanno e altre che vogliono imparare il valore dell’esperienza.