Jobs act, Corte costituzionale ne smantella un altro pezzo: il reintegro in caso di licenziamento

Dalla Consulta arrivano altre due modifiche al Jobs Act di Matteo Renzi: con le sentenze 128 e 129 del 2024 i supremi giudici riscrivono parte della disciplina del lavoro

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Mauro Di Gregorio

Giornalista politico-economico

Laurea in Scienze della Comunicazione all’Università di Palermo. Giornalista professionista dal 2006. Si interessa principalmente di cronaca, politica ed economia.

Dalla Corte costituzionale arrivano altri colpi di scalpello al Jobs Act, la normativa che disciplina il mercato del lavoro. I supremi giudici si sono pronunciati in merito al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Nello specifico, la Corte ha modificato il Jobs Act per quanto riguarda la possibilità di essere reintegrati per quei lavoratori licenziati in caso di ragioni economiche, oppure organizzative, insussistenti.

La Corte smonta un pezzo di Jobs Act

Dopo le pronunce della Consulta, a uscirne ulteriormente indebolito è l’impianto del contratto a tutele crescenti, ovvero il cuore pulsante del Jobs Act. Le differenze fra la normativa renziana e l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori vanno così assottigliandosi.

Il quadro di riferimento tracciato dal Jobs Act era il diritto dei lavoratori assunti a tempo indeterminato e licenziati in maniera illegittima ad ottenere un risarcimento dall’importo crescente in base all’anzianità di servizio. Per questo a suo tempo venne utilizzata la dicitura di “tutele crescenti”. In tale quadro, il reintegro del lavoratore nel posto di lavoro era limitato a ipotesi rare e di estrema gravità.

Sotto la locuzione di “Jobs Act” si indica oltre una decina di atti normativi che hanno modificato il mercato del lavoro.

La sentenza n. 128

Con la sentenza n. 128 del 2024 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di un pezzo del Jobs Act, ovvero dell’articolo 3, comma 2, del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, limitatamente alla parte in cui non si prevede che la tutela reintegratoria attenuata si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore (repêchage). Ne consegue che la violazione dell’obbligo di repêchage si traduce direttamente nella tutela indennitaria prevista dal comma 1 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23/2015.

In sintesi, la Corte ha deciso quanto segue:

  • illegittimità costituzionale – la norma che escludeva la reintegra per licenziamento per giustificato motivo oggettivo quando il fatto è inesistente è incostituzionale;
  • parità di trattamento – deve esserci parità di trattamento tra licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e licenziamenti disciplinari in caso di insussistenza del fatto;
  • tutela reintegratoria – la tutela reintegratoria attenuata deve applicarsi anche ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo quando il fatto materiale è inesistente;
  • ricollocamento – la possibilità di ricollocamento del lavoratore (repêchage) non deve influenzare la decisione di reintegra, similmente a come la proporzionalità del licenziamento non influisce sul licenziamento disciplinare basato su un fatto inesistente;
  • tutela indennitaria – se il fatto esiste ma non giustifica il licenziamento perché il lavoratore può essere ricollocato, si applicherà la tutela indennitaria prevista dal comma 1 dell’articolo 3 del decreto legislativo n. 23/2015.

La sentenza n. 129

E con la sentenza n. 129 del 2024 la Corte costituzionale ha ritenuto che fosse infondato, sotto il profilo costituzionale, un licenziamento disciplinare basato direttamente su un fatto contestato, quando invece la contrattazione collettiva prevede una sanzione conservativa. Nella decisione numero 129, la Consulta ha interpretato la legge in modo da renderla conforme all’articolo 39 della Costituzione. In sostanza, ha stabilito che quando un datore di lavoro licenzia un dipendente per motivi disciplinari, deve seguire il principio della proporzionalità. Questo principio impone che l’errore del lavoratore deve essere abbastanza grave da rompere definitivamente la fiducia necessaria per mantenere il lavoro. La Corte ha poi stabilito che il principio della proporzionalità non si applica quando il fatto contestato al lavoratore è chiaramente insufficiente, secondo quanto stabilito esplicitamente nel contratto, a giustificare il licenziamento. In questi casi, il fatto va considerato come se non fosse mai avvenuto.

Le pronunce precedenti

A marzo una sentenza della Corte costituzionale sul Jobs Act aveva garantito più tutele per i lavoratori. E a febbraio la Consulta aveva ampliato le possibilità di reintegro.

Referendum contro il Jobs Act

Intanto la Cgil ha raccolto 500.000 firme volte alla richiesta di un referendum contro il Jobs Act. Quattro i quesiti sui quali saranno chiamati a esprimersi gli italiani.