Sport, come tutelare la sicurezza e il benessere dei bambini e degli adolescenti

Dalla partecipazione alle attività sportive i bambini traggono numerosi benefici. Tuttavia, ogni anno un numero significativo di giovani atleti interrompe la loro partecipazione allo sport, vittime di bullismo o violenze.

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Donatella Maisto

Esperta in digital trasformation e tecnologie emergenti

Dopo 20 anni nel legal e hr, si occupa di informazione, ricerca e sviluppo. Esperta in digital transformation, tecnologie emergenti e standard internazionali per la sostenibilità, segue l’Innovation Hub della Camera di Commercio italiana per la Svizzera. MIT Alumni.

L’abuso sui bambini nello sport ha iniziato a ricevere attenzione alla fine degli anni ’80, ma bisogna attendere la fine degli anni ’90 perché in alcuni Paesi si inizino ad introdurre idonee politiche per proteggere i bambini nel contesto sportivo.
Oltre un decennio fa l’Unicef aveva riconosciuto la necessità di un monitoraggio più attento e sistematico della “prevalenza, delle forme e dell’impatto della violenza nello sport in tutto il mondo”, senza ricevere, tuttavia, attenzione e considerazione dalle autorità direttamente o indirettamente interessate, che propendevano per una minimizzazione del fenomeno. I vari scandali, venuti alla ribalta della cronaca negli ultimi anni, nel calcio inglese o nella ginnastica statunitense, hanno fatto sì che si ponesse una attenzione senza precedenti sui bambini e i giovani nello sport.

Dopo decenni si è, quindi, acquisita consapevolezza che la sicurezza e il benessere dei bambini e degli adolescenti nello sport diventano elementi primari in un contesto sociale così articolato e disomogeneo come quello contemporaneo. Dalla partecipazione alle attività sportive i bambini traggono numerosi benefici, sia in termini di benessere psico-fisico, che di socializzazione, inclusione, comprensione e adattamento alle regole, migliorando sensibilmente l’ autostima. Tuttavia, ogni anno un numero significativo di giovani atleti interrompe la loro partecipazione allo sport, sentendosi “tradito” da un mondo a cui si affidavano, per essere vittima di violenze.

Uno studio della violenza nel contesto sportivo rimane insufficiente. In Italia è da pochissimi mesi che si è portato a termine un’indagine importante, la prima indagine statistica sul tema della violenza e degli abusi nello sport, con l’obiettivo di colmare una lacuna, che interessa momenti delicati della vita evolutiva dei soggetti più esposti.

L’indagine sugli abusi e le violenze nel mondo dello sport

L’indagine Athlete Culture & Climate Survey sugli abusi e le violenze nel mondo dello sport in Italia è stata commissionata da ChangeTheGame a Nielsen con il contributo del Dipartimento per lo Sport della Presidenza del Consiglio dei Ministri, di Terres des Hommes, del consorzio Vero Volley e la Fondazione Candido Cannavò.

Secondo i dati dell’indagine il 32,4% degli atleti coinvolti ha abbandonato l’attività sportiva. Gli ambienti più colpiti sono  la ginnastica e il tennis.
Nell’80% dei casi, gli atti di violenza subiti durante la pratica sportiva hanno avuto una conseguenza. Molti hanno abbandonato lo sport di gruppo, per evitare il giudizio degli altri. Altri, invece, hanno cambiato società, sport o lasciato del tutto il mondo dello sport.

L’importanza dei dati emersi da questa indagine è stata ricordata e condivisa anche da Paolo Mormando, FIGC, durante un importante incontro organizzato da Social Football Summit, dal titolo “Safeguarding: politiche e principi fondamentali per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni di abuso, violenza e discriminazione nel calcio”, il 29 maggio presso la sede romana di Deloitte.

La ricerca fa riferimento al progetto Child Abuse in Sport European Statistics, detto anche progetto CASES, che aveva lo scopo di fornire dati attendibili sulla prevalenza di violenza interpersonale, abusi e maltrattamenti subiti dai bambini, definiti come persone di età inferiore ai 18 anni, all’interno o all’esterno dello sport attraverso un’indagine su oltre 10.000 individui in sei paesi europei: Austria, Belgio, Germania, Romania, Spagna e Regno Unito.

La violenza interpersonale

La violenza interpersonale può essere fisica, sessuale o psicologica e può comportare privazione e negligenza.
Secondo le Nazioni Unite, qualsiasi tipo di “…violenza fisica o mentale, lesioni o abusi, negligenza o trattamenti negligenti, maltrattamenti o sfruttamento, incluso abuso sessuale…” deve essere considerato violenza interpersonale.
Il Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti dell’Infanzia (2011) sostiene che anche le cosiddette forme “leggere” di violenza interpersonale, specialmente contro i bambini, sono inaccettabili, inclusi comportamenti che altre persone potrebbero definire innocui o non offensivi, come sguardi  indesiderati, commenti o fischi.
L’obiettivo generale dello studio è descrivere il vissuto della violenza interpersonale sperimentata dai giovani partecipanti allo sport ricreativo e dagli atleti in competizioni nazionali e internazionali.
Gli obiettivi specifici sono:

  • fornire una panoramica delle stime generali sulla prevalenza della violenza interpersonale nello sport in Italia
  • esaminare la prevalenza delle specifiche categorie di violenza interpersonale, le differenze di età attuale e di genere e la sovrapposizione delle forme di violenza interpersonale
  • fornire una panoramica degli autori delle violenze nello sport
  • individuare i percorsi di sostegno e di aiuto alle vittime di violenza nello sport

È stato reclutato un campione di atleti italiani con un’età compresa tra i 18 e i 30 anni, che hanno partecipato nella minore età ad uno sport organizzato, ossia che giocavano all’interno di una lega, di un club o di una squadra sportiva con allenamenti e competizioni organizzate. Un totale di 1.446 atleti ha soddisfatto i criteri di inclusione.

I dati della ricerca

Il 38.6% del campione ha indicato di aver subito una violenza nella pratica sportiva prima dei 18 anni. La forma più comune è stata la violenza psicologica (30.4%), seguita dalla violenza fisica (18.6%), dalla negligenza (14.5%), dalla violenza sessuale senza contatto fisico (10.3%) e violenza sessuale con contatto fisico (9.6%). Il 19.4% del campione ha riferito di aver subito una violenza multipla.
Il 14.5% di chi ha subito una violenza psicologica riferisce di aver subito anche subito una violenza fisica. Il 10.5% di chi ha subito una violenza psicologica riferisce, inoltre, comportamenti di trascuratezza e negligenza. Il 7.3% di chi riporta una violenza fisica riferisce una violenza sessuale con contatto fisico e il 7.7% una violenza sessuale senza contatto. Il 9.1% di chi ha afferma comportamenti di negligenza riferisce anche violenza fisica.

Quattro atleti su dieci sono stati vittime di abusi nel mondo dello sport prima dei 18 anni, con conseguenze gravi, come problemi di salute, nel 20% dei casi.  Le esperienze di violenza e di abusi iniziano molto presto, fra i 14 e i 16 anni, comprese le più gravi. La maggior parte dei partecipanti ha sperimentato comportamenti protratti nel tempo, anziché eventi isolati. La maggioranza degli atleti che subiscono violenze o abusi, come riportato dall’indagine, pensano si tratti di bullismo e non chiedono aiuto (56%), perché percepiscono quelle esperienze come accettabili o tollerabili (47%), per paura di sembrare deboli (30%) o per paura delle conseguenze (17%).
Questo succede perché, nella maggior parte dei casi, i giovani non capiscono la gravità degli eventi e si sentono corresponsabili dell’accaduto. Ci sono, in particolare, dei motivi che non portano a chiedere aiuto:

  • consapevolezza
  • colpevolezza
  • squilibrio di potere
  • delusione

Nel campione, gli uomini riferiscono una maggior prevalenza di aver sperimentato violenza psicologica, fisica e sessuale rispetto alle donne. Solamente nella negligenza le donne riferiscono una maggior prevalenza.
Nella violenza fisica (28%) e nella violenza psicologica (39%) i partecipanti hanno indicato che le azioni negative e dannose sono iniziate prima dei 14 anni d’età. Nella violenza sessuale e nella negligenza c’è una percentuale maggiore tra i 15 (rispettivamente 23% e 24.2%) ed i 16 anni (rispettivamente 20% e 20.9%).
Per quanto concerne la durata dell’esperienza negativa c’è una maggior prevalenza per un giorno (dal 14.7% al 20.3%). Per la violenza psicologica c’è una percentuale maggiore nel protrarsi nel tempo per più di due anni con il 12.5%.

Identikit del responsabile dell’abuso

Per quanto riguarda le loro esperienze più gravi, ai partecipanti è stato chiesto di indicare il ruolo/posizione che occupava il responsabile dell’abuso. Nel 33.1% delle situazioni era un compagno di squadra conosciuto ad attuare azioni negative, mentre nel 31.1% dei casi allenatori e allenatrici.
In particolare, negli uomini c’è una prevalenza maggiore per i compagni di squadra (36.8% vs 27.8%) come responsabili di azioni negative, mentre le donne hanno indicato maggiormente allenatori e allenatrici (35% vs 27%). Inoltre, c’è una prevalenza di altri adulti di riferimento che orbitano all’interno del mondo sportivo come altro personale (14.7%), adulti che non si conoscono (8.4%) ed altri adulti conosciuti (8.1%).

I luoghi delle violenze e la richiesta di aiuto

Il luogo più indicato dai partecipanti è dentro/in prossimità dell’impianto sportivo (62.5%), seguito dai locali adibiti a spogliatoio e doccia (25.8%) e nel contesto pubblico (16.7%).
In particolare, all’interno dell’impianto sportivo c’è una prevalenza maggiore di violenza psicologica (67.9%). A seguire ci sono le abitazioni private, le sale per trattamenti medici ed auto e veicoli rispettivamente 7.7%, 7.3% e 7.2%.

Ai partecipanti è stato chiesto se hanno ricercato aiuto o lo hanno ricevuto in modo spontaneo per gli eventi negativi occorsi. La maggior parte dei partecipanti, in particolare similmente nelle due fasce d’età 18-24 (54.5%) e 25-30 (57.7%) anni, non hanno chiesto, né ricevuto aiuto. Fenomeno maggiormente presente nelle donne (62.3%).
Nella violenza psicologica la quota di chi non ha chiesto aiuto è 1,3 volte maggiore rispetto alla media. Nella violenza sessuale, invece, la quota di chi ha ricevuto un aiuto spontaneo è 1,2 volte maggiore rispetto la media.
Tra chi non ha richiesto aiuto, il 46.5% pensava che tali comportamenti fossero accettabili/tollerabili, il 30.1% non voleva apparire debole. Il 25.3% non sapeva a chi rivolgersi, mentre il 17% aveva paura delle conseguenze. Al 3.2% è stato intimato di non parlare degli accaduti.
Tra i partecipanti che hanno cercato e/o ottenuto aiuto, la famiglia (46.9% e 42.4%) e gli amici (31.8% e 19%) sono le principali fonti di supporto e sostegno. In ambito sportivo è stato richiesto aiuto nel 25.5% dei casi. Nel 10.9% ci è si rivolti a professionisti della salute menale. Solo nel 6% è stato richiesto un aiuto legale.

Le conseguenze

Il 22.2% di chi ha riportato di aver subito violenza ha cambiato l’organizzazione sportiva di riferimento, il 29.9% ha cambiato disciplina sportiva, il 32.3% ha lasciato il mondo dello sport, il 12.9% ha avuto problemi di salute temporanei, il 6.5% ha avuto problemi di salute cronici ed il 20.4% non ha riportato conseguenze. Le donne hanno una maggior prevalenza di cambiare sport (32.6%) e di lasciare il mondo dello sport (37.4%) confronto agli uomini rispettivamente 27.4% e 27 %. Tra coloro che hanno subito violenza sessuale si riscontra una prevalenza di problemi di salute cronici 1,2 volte superiore rispetto alla media. Nei casi di negligenza una quota di 1,3 volte superiore per quanto concerne problemi di salute temporanei.

I passaggi delle interviste rivelano esperienze negative legate a differenti discipline, in cui le atlete e gli atleti sono stati soggetti a punizioni, umiliazioni pubbliche e pressioni psicologiche da parte degli allenatori e dei compagni di squadra.
Gli intervistati hanno evidenziato la pressione per conformarsi a determinati standard di bellezza, come avere un certo fisico o gambe di un certo tipo. Questi ideali influenzavano la loro autostima e potevano portare a sensazioni di inadeguatezza e insuccesso. Infatti, sono stati raccontati episodi di bullismo e discriminazione legati all’aspetto fisico.
In questo contesto, il body shaming può essere definito come un’esperienza emotiva comune derivante dalla percezione di dover raggiungere degli standard culturali definiti da modelli ristretti e dal disagio creato da questa esperienza. Alcuni hanno sperimentato l’esclusione e la mancanza di riconoscimento all’interno delle attività sportive e hanno riferito di non essere chiamati a partecipare alle partite o di essere trattati in modo ingiusto a causa del loro aspetto fisico e/o delle loro capacità di performance.

Il problema della violenza riguarda sia il mondo dello sport, sia l’intera società. Cosa è necessario fare?

Un primo passo fondamentale è formare adeguatamente gli allenatori, le allenatrici e gli operatori sportivi, non soltanto dal punto di vista sportivo, ma anche psicologico e pedagogico, soprattutto quando si relazionano con bambini e bambine della scuola primaria. Un secondo passo è controllare, anche con visite a campione e in incognito, come vengono svolti gli allenamenti e sanzionare l’uso di metodi non consoni.

E’ anche rilevante comunicare in modo più efficace i valori dello sport. Mentre a livello più generale e trasversale è necessario spostare l’attenzione dalla performance alla partecipazione e trasmettere i valori di inclusività.