Inquinamento da plastica, 54 aziende producono la metà dei rifiuti globali

È quanto emerge da una ricerca pubblicata su Science Advances e cha ha analizzato circa 2 milioni di oggetti provenienti dalle attività di raccolta in 84 paesi

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Matteo Paolini

Giornalista green

Nel 2012 ottiene l’iscrizione all’Albo dei giornalisti pubblicisti. Dal 2015 lavora come giornalista freelance occupandosi di tematiche ambientali.

Pubblicato: 1 Maggio 2024 14:20

Un nuovo studio condotto da un team internazionale di scienziati, tra cui membri di organizzazioni no-profit, ha rivelato un dato sconvolgente: meno di 60 multinazionali sono responsabili di quasi la metà dell’inquinamento da plastica a livello globale. Tra queste, 6 aziende da sole rappresentano un quarto del totale.

La ricerca, già sottoposta a revisione paritaria e pubblicata sulla rivista scientifica Science Advances, si basa sul lavoro di decine di migliaia di volontari che per 5 anni hanno raccolto e analizzato quasi 2 milioni di rifiuti di plastica in 84 paesi, da spiagge a parchi e fiumi.

I risultati mettono in luce un problema allarmante: esiste una correlazione diretta tra la produzione annuale di plastica delle aziende e la frequenza con cui i loro marchi vengono ritrovati tra i rifiuti. In altre parole, più un’azienda produce plastica, più è probabile che i suoi prodotti finiscano nell’ambiente.

“Dobbiamo compiere uno sforzo titanico – ha affermato Win Cowger, autore principale dello studio e ricercatore presso il Moore Institute for Plastic Pollution Research le multinazionali devono essere ritenute responsabili dell’inquinamento che causano e devono adottare misure concrete per ridurre la loro impronta plastica”.

La plastica monouso delle multinazionali alimenta l’inquinamento globale

Un team internazionale di oltre 100.000 volontari ha raccolto e analizzato 1,87 milioni di rifiuti di plastica in 84 paesi nel corso di cinque anni, scoprendo che la maggior parte di essi erano imballaggi monouso per alimenti, bevande e prodotti legati al tabacco. Dei quasi 2 milioni di oggetti reperiti da parchi, spiagge e corsi d’acqua, circa 910.000 avevano marchi ancora visibili e sono stati classificati. I risultati mostrano che metà della plastica proveniva da sole 56 multinazionali, tra cui The Coca-Cola Company (11%), PepsiCo (5%), Nestlé (3%), Danone (3%) e Altria (2%) che da sole rappresentavano quasi un quarto del totale.

I ricercatori hanno scoperto che esiste una relazione diretta tra la produzione di plastica annuale di un’azienda e la frequenza con cui sono stati ritrovati i suoi prodotti. Ad esempio, se PepsiCo producesse l’1% della massa di plastica mondiale, allora la frequenza dei rifiuti di PepsiCo ritrovati sarebbe circa dell’1%. Questo fenomeno suggerisce che gli sforzi di riciclaggio e di gestione dei rifiuti non sono sufficienti per contenere il problema della plastica.

Neil Tangri, coautore della ricerca e direttore scientifico e politico della Global Alliance for Incinerator Alternatives, ha dichiarato: “Molte di queste aziende in realtà hanno programmi in atto per recuperare i propri rifiuti dall’ambiente o impedire che finiscano lì. E quello che stiamo vedendo è che questi non sono realmente efficaci”. Win Cowger, autore principale dello studio, ha aggiunto: “È una specie di mio peggior incubo. Significa che per risolvere il problema dell’inquinamento da plastica, dobbiamo cambiare radicalmente il modo in cui operiamo come società”.

L’industria della plastica sotto accusa: i marchi responsabili dell’inquinamento da rifiuti

Secondo il coautore Marcus Eriksen, l’industria tende a incolpare i singoli individui per l’inquinamento da plastica, ma la responsabilità ricade sui marchi e sulle loro scelte di imballaggio e di distribuzione dei prodotti usa e getta. The Coca-Cola Company ha promesso di rendere riciclabile il 100% degli imballaggi entro il 2025, mentre Danone e Nestlé hanno affermato di aver ridotto significativamente l’utilizzo di plastica e di sostenere programmi per la raccolta e il riciclo dei rifiuti. Tuttavia, gli esperti che hanno condotto la ricerca sostengono che queste strategie non sono sufficienti e i dati sembrano supportare le loro preoccupazioni: la produzione di plastica è raddoppiata dagli inizi del 2000 e solo il 9% della plastica viene effettivamente riciclato.

Alcuni gruppi dell’industria della plastica sostengono che il materiale contribuisce a rilanciare l’economia globale e che i limiti alla produzione colpirebbero in modo sproporzionato le persone a basso reddito. Tuttavia, gli scienziati avvertono che senza limiti alla produzione, la plastica continuerà ad accumularsi nell’ambiente e nel corpo umano. “È stato lo status quo per molto tempo. E ovviamente non funziona”, ha concluso Cowger.

Il ruolo cruciale dei fiumi nell’inquinamento da plastica

Il problema dei rifiuti di plastica non è semplice da comprendere. Gli sforzi per arrestare il flusso di questi rifiuti che arrivano negli oceani del pianeta si complicano.

In passato, due diversi gruppi di scienziati avevano concluso che il 90% dei rifiuti di plastica che finiscono negli oceani fosse trasportato da un piccolo gruppo di grandi fiumi continentali, tra cui i tre fiumi più lunghi del mondo: il Nilo, il Rio delle Amazzoni e il Fiume Azzurro. Gli esperti concordavano sul fatto che ripulire questi fiumi fosse un grande passo verso la risoluzione del problema.

Tuttavia, una ricerca pubblicata su Science Advances nel 2021 ha rivoluzionato completamente questa teoria. Gli scienziati hanno scoperto che l’80% dei rifiuti di plastica viene trasportato non solo da 10 o 20, ma da ben 1.000 fiumi. Inoltre, è stato rilevato che la maggior parte dei rifiuti è trasportata da piccoli corsi d’acqua che attraversano aree urbane densamente popolate e non dai fiumi più grandi. Queste nuove scoperte sfidano le teorie precedenti e sottolineano l’importanza di adottare un approccio più ampio e integrato per affrontare il problema dei rifiuti di plastica.

Fiumi di plastica, la nuova frontiera dell’inquinamento

L’uomo ha da sempre utilizzato i fiumi come mezzo per smaltire i propri rifiuti, ma la questione dell’inquinamento da plastica ha portato alla luce un problema di proporzioni allarmanti: la quantità di plastica che finisce nei corsi d’acqua è molto maggiore di quanto si pensasse in precedenza.

Per anni, la maggior parte della ricerca si è concentrata sull’accumulo di plastica negli oceani, mentre l’analisi della situazione nei fiumi e negli altri sistemi di acqua dolce è rimasta in secondo piano. Solo di recente sono state condotte le prime valutazioni esaustive sull’inquinamento da plastica nei fiumi, come quella del fiume Gange in India nel 2019 e del Mississippi nel 2021.

Questi studi, condotti da un team di scienziati internazionali, si basano su nuovi modelli che prendono in considerazione una serie di fattori, tra cui:

  • Dimensioni del bacino fluviale e densità di popolazione: fattori già considerati in studi precedenti.
  • Attività nei bacini fluviali: tipologia di attività (agricoltura, industria, ecc.) e loro impatto sulla produzione di rifiuti plastici.
  • Vicinanza alla costa: maggiore è la vicinanza alla costa, maggiore è la probabilità che la plastica finisca nel mare.
  • Precipitazioni e correnti ventose: influenzano il trasporto della plastica nei fiumi.
  • Tipologia di terreno: la pendenza del terreno facilita il trasporto della plastica nei corsi d’acqua.
  • Vicinanza di discariche e aree di smaltimento: discariche entro i 10 chilometri dai fiumi sono una fonte importante di inquinamento.

I dati raccolti da questi studi hanno rivelato un quadro preoccupante: la quantità di plastica che finisce nei fiumi è molto maggiore di quanto si pensasse in precedenza. Si stima che circa l’80% della plastica che raggiunge gli oceani provenga dai fiumi.

La geografia della plastica: i fiumi e il loro carico invisibile

La probabilità che i rifiuti di plastica raggiungano il mare diminuisce man mano che il tratto di fiume da percorrere si allunga. Ad esempio, lungo la Senna in Francia sono state ritrovate bottiglie di plastica risalenti agli anni ’70 arenate lungo la riva del fiume.

Uno dei dati sorprendenti emersi dallo studio, secondo il principale autore Lourens J.J. Meijer, è la portata di rifiuti di plastica dei piccoli fiumi sulle isole tropicali come le Filippine, l’Indonesia e la Repubblica Dominicana, nonché dei fiumi che scorrono in Malesia e America centrale. Questi fiumi, sebbene piuttosto piccoli, riversano enormi quantità di rifiuti.

Il clima gioca un ruolo importante nel modo in cui la plastica fluisce negli oceani. Nei tropici, i fiumi riversano plastica nei mari in modo continuo, mentre i fiumi che scorrono in zone temperate scaricano la quantità maggiore di plastica nell’arco di un solo mese, generalmente agosto, durante la stagione delle piogge o durante un particolare evento, come un’inondazione improvvisa.

Attualmente, l’Asia e il Sud-est asiatico sono le zone critiche per il flusso di plastica negli oceani, ma secondo Laurent Lebreton, coautore dello studio, la situazione potrebbe cambiare nei prossimi decenni. In particolare, l’Africa preoccupa Lebreton a causa dell’aumento della popolazione, dell’economia in crescita e della conseguente maggiore produzione di rifiuti.

La battaglia contro la plastica: un nuovo approccio

La ricerca del 2021, finanziata da The Ocean Cleanup, organizzazione non profit fondata da Boyan Slat, ha subito due anni di revisione prima della pubblicazione. Slat è diventato una celebrità internazionale grazie alla sua azione da 30 milioni di dollari per ripulire l’Oceano Pacifico dalla plastica. Entrambi gli autori dello studio, Lebreton e Meijer, lavorano per The Ocean Cleanup.

Il team di Slat ha sviluppato un macchinario “mangia spazzatura” chiamato Interceptor per recuperare i rifiuti dai fiumi. Questo dispositivo è una variante di Mr. Trash Wheel, la chiatta raccogli-rifiuti dai grandi occhi azionata da una ruota idraulica che dal 2008 ripulisce l’Inner Harbor di Baltimora, nel Maryland, e fa parte di una flotta di quattro ruote galleggianti dello stesso tipo.

Interceptor: un obiettivo ambizioso, ma la prevenzione resta la chiave

Boyan Slat ha annunciato nel 2019 un piano ambizioso: installare 1.000 Interceptor, dispositivi per la raccolta dei rifiuti di plastica, nei fiumi di tutto il mondo entro il 2025. Ad oggi, diversi di questi dispositivi sono già in funzione in Malesia, Indonesia, Vietnam e Repubblica Dominicana. Tuttavia, Slat ammette che l’obiettivo iniziale si è rivelato più complesso del previsto.

La gestione di un numero così elevato di Interceptor e la necessità di una manutenzione costante rappresentano sfide considerevoli. George Leonard, direttore scientifico di The Ocean Conservancy, impegnata nella tutela degli oceani, sottolinea che la difficoltà di ripulire 1.000 fiumi, nonostante i progressi tecnologici, ribadisce l’importanza di un approccio preventivo.

Prevenzione come soluzione a lungo termine

Leonard afferma che, piuttosto che concentrarsi esclusivamente sulla pulizia, è fondamentale ridurre la quantità di plastica immessa nell’ambiente. “Riduzione della produzione di plastica e gestione efficiente dei rifiuti sono le soluzioni più efficaci a lungo termine”, sostiene Leonard.

La lotta contro l’inquinamento da plastica nei fiumi richiede un impegno collettivo da parte di governi, aziende e cittadini. Investimenti in ricerca, sviluppo di tecnologie innovative, campagne di sensibilizzazione e cambiamenti nelle abitudini di consumo sono elementi cruciali per affrontare questa sfida globale e salvaguardare i nostri corsi d’acqua e gli ecosistemi che ne dipendono.

Trattato globale sull’inquinamento da plastica: una trattativa cruciale per l’ambiente

Dal 21 al 30 aprile, a Ottawa, Canada, i rappresentanti di oltre 190 Paesi hanno discusso il Trattato globale sull’inquinamento da plastica. Questa trattativa è di grande importanza per l’ambiente, poiché si tratta di stabilire se includere norme vincolanti per frenare la produzione e la dispersione di rifiuti plastici o dare priorità agli interessi dei produttori di polimeri e petrolio.

I lavori per il Trattato globale sull’inquinamento da plastica sono iniziati nel marzo 2022 con l’adozione della risoluzione 5/14 da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEA). Questo ha portato alla creazione di un Comitato negoziale intergovernativo (INC) incaricato di elaborare uno strumento internazionale giuridicamente vincolante.

Delusione a Ottawa, ostacoli per il Trattato Onu sulla plastica

La plenaria conclusiva a Ottawa ha deluso la società civile, lasciando l’amaro in bocca e mettendo in dubbio l’iter del Trattato ONU sulla plastica. I colloqui tra i paesi hanno registrato scarsi progressi durante la settimana di negoziati.

L’attenzione era focalizzata sul perfezionamento della “bozza zero” del Trattato, un documento di quasi 70 pagine emerso dai negoziati del 2023, contenente opzioni su cui basare il testo finale. Secondo il Center for International Environmental Law (CIEL), gran parte della settimana è stata dedicata alla revisione del testo, con i negoziatori che hanno iniziato a lavorare sui dettagli solo verso la fine. Il poco tempo rimasto ha reso difficile raggiungere una sintesi soddisfacente.

Il peso delle lobby e la mancanza di impegno per la riduzione

La quarta sessione del comitato negoziale intergovernativo per il Trattato ONU sulla plastica (INC-4) ha rischiato di collassare, con i paesi che hanno adottato un programma di lavoro formale che dovrebbe traghettare i negoziati fino a novembre, quando si terrà l’ultima sessione in Corea. Tuttavia, serpeggia la preoccupazione che questa non sarà l’ultima sessione e l’ombra di un ennesimo fallimento della diplomazia internazionale guidata dall’ONU si allunga sul processo.

Il problema principale è che i governi impegnati nel processo non riescono a scrivere la parola “riduzione”. Gli ambientalisti sostengono che tagliare la produzione di plastica sia un’operazione necessaria per colpire a monte il settore e ridurne il peso nell’economia. Tuttavia, i produttori di petrolio, l’industria chimica e i governi del Nord globale non sono d’accordo. Di conseguenza, il programma intersessione non prevede discussioni sulle misure per ridurre la plastica, ma solo questioni procedurali e di minore rilevanza.

Il peso delle lobby in questo negoziato è stato grande, con 196 lobbisti dell’industria chimica e dei combustibili fossili registrati per i negoziati, di cui almeno sedici nelle delegazioni nazionali. Questo ha contribuito a un rischio concreto di stallo sui cosiddetti hot spots, ovvero i nodi chiave del Trattato, che verranno riesumati solo a fine anno.