Greenwashing, parte la stretta Ue grazie alla pubblicazione della Direttiva

Redatta la "black List" che elenca le varie pratiche aziendali scorrette e che saranno considerate come attività di greenwashing da parte dell'Unione europea

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Matteo Paolini

Giornalista green

Nel 2012 ottiene l’iscrizione all’Albo dei giornalisti pubblicisti. Dal 2015 lavora come giornalista freelance occupandosi di tematiche ambientali.

Pubblicato: 11 Marzo 2024 18:06

A partire dal 27 settembre 2026, l’adozione da parte di imprese e professionisti di comportamenti inclusi nella “black list” della nuova direttiva 2024/825/Ue sarà qualificata come “greenwashing“. Tale qualificazione potrà essere stabilita senza la necessità di ulteriori prove, davanti alle competenti autorità degli Stati membri. Il termine “greenwashing” si riferisce al nuovo provvedimento dell’Unione Europea volto a contrastare il cosiddetto marketing ambientale fuorviante, noto anche come ecologismo di facciata. Questa pratica consiste nel presentare prodotti o processi come più rispettosi dell’ambiente di quanto siano effettivamente. Il recente provvedimento, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Ue il 6 marzo 2024, introduce nel sistema legale dell’Unione Europea un elenco dettagliato di pratiche commerciali che gli Stati membri devono considerare “sempre sleali”, in quanto ingannevoli riguardo alle reali qualità ambientali dei beni o servizi promossi.

Stop al greenwashing: la nuova Direttiva europea facilita la tutela dei consumatori

Il recente provvedimento costituisce una riformulazione della direttiva 2005/29/CE sulla tutela dei consumatori, la quale proibisce preventivamente le “pratiche commerciali” – azioni e omissioni mirate a promuovere un prodotto – considerate “sleali”. Queste pratiche sono valutate in base alla loro contrarietà alla diligenza professionale e alla loro falsità o capacità di alterare in modo significativo il comportamento economico del consumatore medio.

All’interno del concetto di “pratiche commerciali sleali”, la direttiva 2005/29/CE individua due categorie specifiche: le “ingannevoli“, capaci di indurre in errore i consumatori, e le “aggressive“, caratterizzate da pressioni illegittime sugli stessi.

In questo contesto normativo, la neo direttiva 2024/825/UE interviene inserendo figure specifiche di greenwashing negli elenchi della direttiva 2005/29/CE, che identificano le tipologie più comuni di pratiche commerciali ingannevoli. Questo intervento mira a alleggerire il carico probatorio sugli individui e le associazioni di tutela nelle opportune sedi.

Stop al greenwashing, la “black list” europea per tutelare i consumatori

L’intervento di maggiore rilevanza della direttiva 2024/825/UE si evidenzia attraverso l’aggiunta di specifiche figure di “marketing ambientale” nell’allegato 1 alla direttiva 2005/29/CE, che elenca le pratiche commerciali “considerate in ogni caso sleali” sulla base di una presunzione legale, comunemente nota come “black list”.

Riguardo a tali figure, i soggetti interessati saranno esonerati dalla necessità di dimostrare che la condotta è idonea a falsare in modo rilevante la scelta commerciale della persona media. In primo luogo, secondo la riformulata “black list”, sarà considerata condotta di greenwashing per presunzione legale “l’esibire un marchio di sostenibilità che non è basato su un sistema di certificazione o non è stabilito da autorità pubbliche“.

Saranno vietati sia i marchi volontari non verificati da soggetti terzi, indipendenti e rispondenti a requisiti ex lege, sia quelli non istituiti dall’Ue (come ad esempio l’Ecolabel) o dai singoli Stati membri (come il “Green made in Italy” di cui al dm 56/2018).

Inoltre, sarà considerata pratica commerciale “in ogni caso sleale” il “formulare un’asserzione ambientale generica senza poter dimostrare l’eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali pertinenti”. Questo colpirà le dichiarazioni ambientali (diverse dai marchi) non chiaramente supportate attraverso lo stesso mezzo di comunicazione (come le generiche affermazioni “verde”, “ecologico”, “ecocompatibile”, “rispettoso dell’ambiente”) e i cui autori non saranno in grado di dimostrarne la conformità a sistemi di qualità ambientale riconosciuti ex lege.

Regolamentazione delle dichiarazioni ambientali, la nuove misure Ue

La direttiva 2024/825/UE, volta a contrastare il greenwashing, stabilisce che un’altra condotta commerciale sleale per presunzione legale sarà quella di formulare asserzioni ambientali complessive su prodotti o attività, ma che in realtà riguardano solo un aspetto specifico degli stessi. In questo contesto, vengono presi di mira gli slogan del tipo “realizzato con materiale riciclato” o “da fonti rinnovabili“, che si rivelano veritieri solo in parte.

La normativa stabilisce inoltre che sia considerata sleale ex lege la dichiarazione che un prodotto ha un impatto ambientale neutro, ridotto o positivo in termini di gas serra, quando tale affermazione si riferisce solo alle “compensazioni” delle emissioni, ignorando l’intero ciclo di vita del prodotto. Questo riguarda in particolare le asserzioni legate a locuzioni come “neutrale” o “a zero emissioni nette” per il clima, che potrebbero creare una falsa impressione di assenza di impatto ambientale.

La direttiva impone sanzioni inequivocabili anche per chi presenta requisiti legalmente imposti come tratti distintivi di un’offerta, come ad esempio vantare l’assenza di una sostanza chimica effettivamente vietata.

Nuove regole per la riparabilità e la durata dei prodotti

Nell’ambito delle dichiarazioni ambientali, alcune pratiche sono universalmente riconosciute come sleali e ingannevoli. Tra queste, spicca l’atto di presentare un prodotto come riparabile, quando in realtà non lo è, sfruttando la crescente tendenza dei consumatori a preferire beni durevoli e facilmente riparabili. Allo stesso modo, è considerato disonesto indurre i consumatori a sostituire i materiali di consumo prima che sia effettivamente necessario, una pratica che non solo genera sprechi ma anche costi aggiuntivi per gli utenti.

Un altro esempio di tali pratiche sleali è la distorsione delle informazioni relative alla durabilità di un prodotto. Dichiarare falsamente o esagerare i termini di durabilità temporale di un bene può indurre il consumatore in errore, influenzando la sua decisione d’acquisto basata su aspettative non realistiche.

Infine, nell’era digitale, un tema particolarmente spinoso è quello degli aggiornamenti software. Promuovere tali aggiornamenti senza informare adeguatamente l’utente che questi potrebbero incidere negativamente sul funzionamento del bene è una pratica sleale che può compromettere la fiducia e l’esperienza dell’utente.

Queste tattiche non solo minano la fiducia dei consumatori ma ostacolano anche il progresso verso un’economia più sostenibile e rispettosa dell’ambiente.

Nuove regole per le dichiarazioni non verificabili e irrilevanti

La direttiva 2024/825/UE non solo amplia la “black list” delle pratiche commerciali sleali, ma arricchisce anche l’elenco esemplificativo di condotte che, sebbene non automaticamente illegali, possono celare inganni. Questo elenco, originario dell’articolo 6 della direttiva 2005/29/CE, ora include nuove figure di condotta quali:

  • Dichiarazioni che possono trarre in inganno riguardo le qualità ambientali e la circolarità dei prodotti, come la loro durabilità, riparabilità o riciclabilità
  • Asseverazioni sulle prestazioni ambientali future di beni e servizi che non possono essere verificate
  • La promozione come vantaggi di elementi che in realtà sono irrilevanti, ad esempio, vantare l’assenza di plastica in fogli di carta

Queste aggiunte mirano a proteggere i consumatori da messaggi fuorvianti e a promuovere una maggiore trasparenza nelle pratiche commerciali.

Regole per i marchi di sostenibilità

I marchi di sostenibilità sono essenziali per indicare le qualità ecologiche o sociali di un prodotto, processo o azienda. La loro affidabilità dipende dalla trasparenza e dalla certificazione da parte di autorità riconosciute. Per questo motivo, la direttiva 2005/29/CE prevede che i marchi non certificati o non riconosciuti da enti pubblici non possano essere esibiti. Prima di utilizzare un marchio di sostenibilità, l’azienda deve assicurarsi che questo rispetti criteri di trasparenza e affidabilità, verificabili attraverso controlli indipendenti conformi a standard internazionali come la norma ISO 17065.

I marchi di sostenibilità pubblici, come quelli che attestano la conformità ai regolamenti (CE) n. 1221/2009 o (CE) n. 66/2010, sono esempi di loghi riconosciuti. Anche alcuni marchi di certificazione possono essere considerati come marchi di sostenibilità se promuovono aspetti ambientali o sociali, ma solo se rilasciati da autorità pubbliche o basati su sistemi di certificazione validi. Questa disposizione rafforza il punto 4 dell’allegato I della direttiva 2005/29/CE, che proibisce di dichiarare falsamente l’approvazione di un prodotto o pratica commerciale da parte di enti pubblici o privati.

Le norme volontarie per obbligazioni verdi e sostenibili non sono considerate marchi di sostenibilità secondo questa direttiva, poiché non sono primariamente rivolte agli investitori al dettaglio e sono regolate da leggi specifiche. È fondamentale che le autorità pubbliche facilitino l’accesso ai marchi di sostenibilità per le PMI, nel rispetto del diritto dell’Unione.

Infine, i marchi di sostenibilità che implicano un impatto ambientale positivo o neutro del prodotto devono essere considerati come affermazioni ambientali e, come tali, soggetti a criteri rigorosi di verifica.

Implementazione e Effetti della Direttiva 2024/825/UE

La nuova direttiva 2024/825/UE, che entrerà in vigore il 26 marzo 2024, richiede agli Stati membri di adottare e divulgare entro il 27 marzo 2026 le disposizioni necessarie per allinearsi alle nuove normative, con l’obbligo di applicarle a partire dal 27 settembre dello stesso anno. La specificità delle nuove regole Ue contro il greenwashing e la limitata discrezionalità concessa agli Stati membri nella loro implementazione, potrebbero attribuire alla direttiva il carattere giurisprudenziale di “direttiva dettagliata”. In tale scenario, se la direttiva non venisse recepita nei tempi stabiliti, essa potrebbe comunque produrre effetti diretti a livello nazionale, creando un rapporto verticale tra individui (sia persone fisiche che giuridiche) e lo Stato inadempiente. Questo consentirebbe agli individui di intraprendere azioni legali contro lo Stato, anche per ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa della mancata attuazione.

Aggiornamento del Codice del Consumo e pratiche commerciali scorrette

Plausibilmente, l’adeguamento alle nuove regole europee in materia di pratiche commerciali scorrette avverrà mediante l’aggiornamento del decreto legislativo 206/2005, meglio conosciuto come “Codice del Consumo“.

All’interno del Codice, le “pratiche commerciali sleali” definite a livello unionale saranno recepite come “pratiche commerciali scorrette”. Tale scelta terminologica è stata adottata per evitare confusione con un altro istituto già presente nell’ordinamento giuridico italiano: gli “Atti di concorrenza sleale”, disciplinati dall’articolo 2598 del codice civile.

L’aggiornamento del Codice del Consumo garantirà la coerenza del sistema normativo italiano con le disposizioni europee a tutela dei consumatori, rafforzando la loro protezione contro comportamenti scorretti da parte delle imprese.

Greenwashing e obsolescenza programmata, pratiche ingannevoli nel mondo del consumo

Il greenwashing è una pratica ingannevole di comunicazione o marketing che presenta attività o prodotti come ecologici, nascondendo l’impatto ambientale negativo. Questa tecnica sfrutta la sensibilità crescente dei consumatori verso le questioni ambientali, ma spesso non corrisponde alla realtà. Il termine, coniato nel 1986 dall’ambientalista Jay Westerveld, critica le aziende che promuovono comportamenti ecologici per motivazioni economiche.

L’obsolescenza programmata è una strategia commerciale che accorcia artificiosamente il ciclo di vita dei prodotti per mantenere alta la domanda e stimolare l’acquisto di nuovi modelli. Questa pratica dannosa, emersa nel 1924 con i produttori di lampadine, si è diffusa con dispositivi come smartphone, computer e altri beni “usa e getta”, riducendo deliberatamente la durata dei prodotti per promuovere il loro rapido sostituto con nuove versioni.

Greenwashing, i rischi reputazionali per le aziende

Le aziende che oggi continuano a mettere in atto azioni di greenwashing si espongono a pericolosi rischi reputazionali, con una serie di possibili conseguenze:

  • Perdita di fiducia dei consumatori: il greenwashing è la “peste bubbonica” per la fiducia dei consumatori verso un brand. L’emersione di affermazioni ingannevoli può compromettere seriamente la percezione di fiducia che le persone attribuiscono ad un marchio
  • Impatto negativo sul marchio: un’azienda coinvolta in pratiche di greenwashing rischia di vedere il proprio marchio danneggiato, diventando meno attraente per l’utente finale e per gli investitori
  • Danno reputazionale: nell’epoca della comunicazione istantanea, le notizie negative sui brand possono diffondersi in modo rapidissimo. Un’azienda che non ha politiche per la gestione di crisi reputazionale può subire effetti nefasti

Oltre a questi:

  • Danni economici: le sanzioni per il greenwashing possono essere molto elevate, e la perdita di fiducia dei consumatori può tradursi in una diminuzione delle vendite
  • Difficoltà nel reclutamento di talenti: i migliori talenti sono attratti da aziende con una forte reputazione etica. Il greenwashing può rendere un’azienda meno attraente per i potenziali candidati
  • Problemi legali: le aziende che fanno greenwashing possono essere citate in giudizio dai consumatori o dalle autorità competenti

Il greenwashing non è una scelta sostenibile per le aziende. È importante che le aziende si impegnino a comunicare in modo trasparente e responsabile per costruire una reputazione solida e duratura.

Verso un futuro sostenibile, ridurre greenwashing e obsolescenza programmata

Limitare il greenwashing e l’obsolescenza programmata rappresenta un vantaggio significativo sia per i consumatori che per l’ambiente. I consumatori trarrebbero beneficio da una maggiore chiarezza e affidabilità delle informazioni relative all’impatto ambientale dei prodotti, nonché da una durabilità e qualità superiore degli articoli acquistati. Questo si tradurrebbe in un risparmio economico e in una minore necessità di sostituire frequentemente i beni di consumo.

Parallelamente, l’ambiente godrebbe di una diminuzione dei rifiuti e delle emissioni nocive, contribuendo a una riduzione dell’inquinamento. Ciò porterebbe anche a una maggiore protezione della biodiversità e degli ecosistemi. Inoltre, incoraggiare pratiche sostenibili potrebbe accelerare il passaggio a un’economia circolare, incentrata sul riutilizzo, il riciclo e il recupero dei materiali, chiudendo il ciclo di vita dei prodotti in un modo ecologicamente responsabile.