Siamo arrivati al pacchetto numero 15 di sanzioni Ue contro la Russia, sia contro individui singoli sia contro aziende private e pubbliche. In Occidente media e governi cantano di una nuova crisi dell’economia del Paese che ha invaso l’Ucraina, convertita in assetto di guerra ma incapace di sostenere a lungo termine il riarmo annunciato.
Se da un lato il Cremlino ha dovuto fare i salti mortali per salvaguardare la tenuta interna – soprattutto attraverso i “miracoli” di Elvira Nabiullina, presidente della Banca centrale russa – dall’altro Mosca ha saputo sopperire alla chiusura occidentale tuffandosi nell’oscura rete di traffici in Asia Centrale. Con la stretta cooperazione di Cina e Iran.
Le sanzioni occidentali alla Russia, spiegate
Come ampiamente prevedibile, le sanzioni non hanno portato a un collasso dell’economia russa. Non solo: non hanno indotto neanche una crisi sistemica. Avevamo già parlato delle modalità con cui il Cremlino aggira le sanzioni occidentali, ma c’è di più. Innanzitutto un soggetto geopolitico applica questi atti ostili a un altro soggetto geopolitico, rivale o aspirante tale, per due motivi basilari:
- compattare il fronte della coalizione attaccante (come gli Usa con gli Stati europei, ad esempio);
- destabilizzare il fronte interno dell’avversario.
Dobbiamo poi precisare che le sanzioni economiche inflitte a Mosca non sono tutte uguali: ci sono quelle finanziarie e quelle commerciali. Con una grande differenza fra loro: le prime sono imposte da istituzioni senza affidarsi a intermediari che le facciano rispettare, le seconde si affidano alla collaborazione di soggetti terzi.
Le sanzioni finanziarie hanno prodotto effetti decisamente superiori, staccando di fatto la Russia dalla rete nella quale era stata inglobata a inizio Duemila assieme alla Cina. Un esempio di sanzione finanziaria è il divieto, condiviso dai membri dell’Ue, di condurre qualsiasi operazione con la Banca centrale russa relative alla gestione delle riserve e delle attività. La situazione odierna non è tuttavia paragonabile a quella del 2014, anno in cui la sanzioni finanziarie occidentali provocarono il crollo del rublo e una grave crisi all’interno della Federazione, ma anche alla stessa Europa. Fu allora infatti che gli Stati membri si resero conto di quanto la nostra economia fosse compenetrata con quella russa e della pericolosità dell’effetto boomerang. Nel 2015, il danno economico a danno di alcuni Stati europei è quantificabile in almeno 100 miliardi di euro. Le sanzioni commerciali invece agiscono sul lungo periodo, rilasciando i loro effetti nel corso degli anni. Grazie all’appoggio della Cina e alla rete commerciale alternativa costruita in Asia, la Russia ha sopperito largamente alla chiusura proveniente da ovest. In considerazione anche del fatto – dirimente ma ignorato in Occidente – che i russi non conoscono né desiderano il benessere socio-economico di stampo occidentale, frutto della globalizzazione a guida americana.
L’impianto sanzionatorio occidentale ha rivelato insomma più debolezze che punti di forza, mostrando anche dissidi interni (soprattutto in Europa) nelle tempistiche e nelle modalità di imposizione degli atti ostili al Cremlino. Attenzione però a non scadere nella propaganda inversa, secondo cui l’inflazione alle nostre latitudini sia dovuta all’ostentata avversione alla Russia. In realtà l’andamento dell’inflazione è causato in gran parte alla pandemia da Covid, più precisamente al periodo 2020-2022. Come dimostra, del resto, il tanto chiacchierato prezzo del gas, che in Europa compravamo in grandissima quantità da Mosca: le tariffe avevano cominciato a salire già a metà del 2021, dunque prima dell’invasione su larga scala dell’Ucraina. Non è però tutto bianco e nero. La scala di grigi in questo caso comprende anche un’altra considerazione: la Russia è in difficoltà nella misura in cui pensa di sostenere l’immane sforzo economico-militare per la sua guerra contro Ucraina e Occidente.
Cos’è e quanto vale l’economia di guerra russa
In due parole, l’economia di guerra comporta il dirottamento della maggior parte dello sforzo produttivo e industriale di un Paese (impegnato in un conflitto aperto) nelle questioni belliche. Il sistema economico nazionale si adegua, anche modificando contratti in maniera unilaterale e riconvertendo interi siti industriali. Le energie vengono incanalate senza sprechi nel sostegno della guerra. A onore e gloria della nazione, avremmo detto in altri tempi. A settembre il Cremlino ha svelato il bilancio statale, evidenziando un piano per aumentare di un ulteriore 25% la spesa per la Difesa nel 2025. Ennesimo segnale di uno stato di bellicosità che si preannuncia lungo, a dispetto degli imminenti negoziati che determineranno al massimo una tregua tra le parti.
Nel prontuario russo c’è una voce di spesa separata dalle altre, denominata национальная оборона (natsional’naya oborona, “difesa nazionale”). Analizzando i dati, risulta che nel 2025 l’esborso militare ammonterà a 13,5 trilioni di rubli (oltre 145 miliardi di dollari), circa il 32,5% dell’intero bilancio del Paese. Per capire, la spesa per la difesa nazionale nel 2024 è stata (finora) del 28,3%. Il punto che riguarda il sostegno ai servizi segreti segna invece un aumento dei costi a 17 milioni di rubli (circa 170 miliardi di dollari), pari a ben il 40% dell’intera spesa governativa e all’8% del Pil nazionale. La spesa per la Difesa sarà invece pari al 6% del Pil, al livello più alto dalla Guerra Fredda. Per offrire un’ulteriore suggestione di confronto, la spesa militare degli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam mangiava l’8-10% del Prodotto interno lordo.
Come ha sottolineato The Economist, il paragone più dirimente per valutare il momento economico russo (rispetto ai conflitti passati) va ricercato nella politica monetaria. Durante la Seconda Guerra Mondiale, il Regno Unito si impegnò per vincere anche un’altra guerra, che hanno definito “del 3%”, con riferimento al mantenimento dei tassi d’interesse. Allo stesso modo, negli stessi Anni Quaranta, la Federal Reserve americana mantenne i tassi intorno al 2,5%. I minori costi di prestito contribuirono a mantenere accessibili gli elevati livelli di deficit. In Russia, al contrario, il rendimento del debito sovrano decennale è aumentato di molto, passando dal 6% del periodo pre-guerra al 16% dopo l’invasione del febbraio 2022.
Le mosse di Elvira Nabiullina, figura chiave della corte di Putin
Elvira Nabiullina, a capo della Banca Centrale russa, è da tempo l’incarnazione della classe tecnocratica del governo di Vladimir Putin. In carica dal 2013, alla donna forte del Cremlino è stato riconosciuto retoricamente il merito di aver garantito la stabilità economica e di essere stata l’architetto principale della risposta di Mosca alle sanzioni occidentali. Mentre però l’economia di guerra russa si trova ad affrontare la sfida di un’inflazione galoppante, oligarchi e aziende faticano a mettersi sulla giusta strada da percorrere per affrontare le crescenti sfide poste dall’aumento del costo della vita e dagli ostacoli imprenditoriali.
In un contesto di crescente inflazione, il 25 ottobre 2024 la Banca Centrale ha aumentato il tasso di interesse di riferimento al massimo storico del 21%. Preparando a un nuovo incremento a dicembre. In questo modo si incentivano i consumatori a conservare denaro in conti di risparmio o titoli di Stato, anziché spenderlo. Vista anche la diminuita quantità di beni e servizi messi a disposizione del pubblico. Ad esempio, un cittadino può accantonare i soldi su un conto corrente per 12 mesi e guadagnare un interesse del 21,3%, mentre un prestito al consumo di un anno ai tassi di mercato si avvicina al 23%. Allo stesso modo, i rendimenti dei titoli di Stato russi a cinque anni (Ofz), considerati un investimento a basso rischio, hanno raggiunto un livello del 18,6%, rispetto all’11-12% di gennaio 2024.
La Banca Centrale ha fatto inoltre pressioni sul governo affinché riducesse la disponibilità di prestiti sovvenzionati dallo Stato e inasprisse i requisiti per i mutuatari. Sostenendo, ad esempio, l’annullamento del programma russo di mutui agevolati di concerto col ministero delle Finanze. La Banca centrale ha altresì limitato il numero di prestiti di microfinanza a uno a persona e ha imposto alle banche di ridurre la loro dipendenza da pochi grandi gruppi aziendali. L’insieme di queste azioni è finalizzato a raffreddare la domanda in modo sufficiente a dare ai produttori russi il tempo di adeguarsi ed evitare bruschi aumenti dei prezzi, contrastando così l’inflazione. A ottobre, le banche russe hanno emesso prestiti per 871 miliardi di rubli (circa 8,7 miliardi di dollari), il 19,6% in meno rispetto a settembre e il 43,3% in meno rispetto a ottobre 2023. Secondo la Banca centrale, potrebbero volerci dai tre ai cinque mesi prima che il cambiamento della politica monetaria produca i suoi effetti sull’economia reale.
Come sta (davvero) l’economia russa
In Russia, il Paese più esteso e con la minore densità abitativa relativa del mondo, la questione economica è inscindibile dalla questione demografica. Centinaia di migliaia di russi sono stati uccisi o feriti durante la guerra, molti altri hanno lasciato il Paese per sfuggire alle derive liberticide o alla mobilitazione generale. Coloro che se ne vanno sono spesso i più giovani e i più istruiti, peggiorando la già disastrosa situazione demografica ed estremizzando le inefficienze del mercato del lavoro. Inoltre, con la Federazione ampiamente tagliata fuori dai mercati finanziari più importanti del mondo, gli investimenti nell’economia russa risultano completamente insufficienti a sostenere una ripresa convincente.
Nonostante i “miracoli” di Nabiullina (così li definiscono i media russi) nel rialzo dei tassi di interesse, l’inflazione sta sfuggendo decisamente di mano. Nelle ultime settimane, la Federazione ha sofferto lo scossone valutario più forte dal febbraio 2022, col rublo che si è svalutato in maniera forte e rapida rispetto al dollaro, crollando di oltre il 25%. Prima della guerra, il cambio si aggirava sui 70-80 rubli per dollaro. Oggi supera i 100 rubli. Peggio ancora, la moneta russa ha perso terreno anche nei confronti dello yuan cinese, imposta da Pechino come valuta principale delle transazioni e dei traffici commerciali (soprattutto idrocarburi) con Mosca. Tradotto: la crescente debolezza del rublo incarna la crescente debolezza geopolitica della Russia nel rapporto con le altre potenze.
A metà novembre il tasso annuale d’inflazione comunicato dal Cremlino era dell’8,56%, su livelli simili a quelli italiani. L’accelerazione dei prezzi potrebbe però essere addirittura superiore, visto che Nabiullina ha innalzato i tassi d’interesse al 16% a luglio per giungere al 21% a novembre. Se si dà uno sguardo più attento ai verbali del Consiglio della Banca di Russia, si può chiaramente leggere un’altra “ammissione di colpa”: i prezzi stanno accelerando per colpa della guerra e per effetto delle sanzioni. Dicono anche che l’economia si sta fermando ma Nabiullina intende continuare ad alzare i tassi d’interesse, benché già a livello astronomico.
La situazione del rublo è in gran parte cagionata dalla decisione degli Stati Uniti di rafforzare le sanzioni finanziarie contro il Cremlino, coinvolgendo altri grandi istituti di credito come Gazprombank, punto di riferimento statale per i pagamenti internazionali nel settore energetico. La perdita di valore della valuta nazionale è un fattore che determina l’incremento dell’inflazione. C’è però da dire che settori chiave dell’economia russa come gas e nucleare non hanno risentito delle sanzioni. Il quadro generale non è dunque idilliaco né catastrofico, a dimostrazione che la verità sta sempre nel mezzo. Il futuro dell’economia russa passerà nel 2025 soprattutto dal prezzo internazionale del petrolio. Gli scambi con gli attori asiatici indeboliranno sempre più il peso di Mosca nelle trattazioni “oscure” con Iran e Cina, senza tuttavia modificare la posizione fondamentale del Paese nella triangolazione commerciale estranea all’Occidente.
Le previsioni sull’economia russa
A sollevare notevoli preoccupazioni sulla sostenibilità futura della crescita russa è proprio la spesa bellica, poiché erode le riserve esistenti ed esclude gli investimenti in settori con un potenziale di crescita a lungo termine. L’economia di guerra alimenta inoltre l’inflazione nei prezzi al consumo e nei salari, in particolare perché i livelli di investimento privato sono bassi e il mercato del lavoro è carente di manodopera competente. Ciò a sua volta esercita pressione sulla politica monetaria, inducendo la Banca Centrale a innalzare ulteriormente i tassi di interesse, per compensare la politica fiscale eccessivamente stimolante.
Un altro elemento importante da sottolineare è che l’economia russa è caratterizzata da debolezze strutturali. La Federazione ha dovuto affrontare per molti anni una crescita anemica dovuta a bassi guadagni di produttività e dati demografici sfavorevoli. Da quando è stato imposto il primo ciclo di sanzioni alla Russia, in seguito all’annessione unilaterale della Crimea nel 2014, la crescita si è attestata in media intorno all’1% annuo, un dato infimo per un mercato emergente con potenziale di recupero. Più di recente, le sanzioni e le spese di guerra hanno fatto sì che la Russia registrasse risultati nettamente inferiori rispetto ad altri Stati esportatori di petrolio, soprattutto in Medio Oriente. Inoltre, secondo gli analisti, nessuno dei dati fondamentali di crescita (non legati alla guerra) è destinato a migliorare.
Il ruolo della Cina “in vista di una prossima guerra”
Il sostegno cinese all’economia russa non è ovviamente uno slancio d’amicizia. Russia e Cina sono imperi contigui, che si odiano anche con venature razziste ma che al momento hanno deciso di collaborare per approfittare del momento di stanchezza statunitense. L’invasione su larga scala dell’Ucraina ha consentito alla prima potenza asiatica di studiare i meccanismi di elusione delle sanzioni occidentali adottati da Mosca e di valutarne l’efficacia. Secondo il Wall Street Journal, Pechino ha istituito a tal fine un apposito gruppo interagenzia, che produrrebbe rapporti periodici per la Repubblica Popolare.
Secondo funzionari statunitensi, l’obiettivo della Cina è “trarre lezioni” in merito alla mitigazione sistemica dell’apparato sanzionatorio occidentale in vista di un possibile conflitto per Taiwan, che vedrebbe opposti Pechino agli Stati Uniti e ai loro alleati. Per studiare il metodo russo di aggiramento dei blocchi predisposti da Usa e Ue, la Repubblica Popolare avrebbe organizzato periodiche visite di funzionari cinesi a Mosca, con tanto di meeting con funzionari della Banca Centrale, del ministero delle Finanze e di altre agenzie governative russe. Gli sforzi intrapresi dal gigante asiatico non sembrano tuttavia preparatori a un’imminente quanto difficilissima invasone di Taiwan, ma piuttosto si configurano come tentativi di prepararsi a uno “scenario estremo”.
Secondo il quotidiano americano, le misure intraprese dalla Cina sono inoltre “emblematiche della nuova era di schermaglie economiche cui ha dato inizio l’invasione russa dell’Ucraina”, dove “le linee tra politiche economiche e strategie geopolitiche sono sempre più tenui”.