Dalla scoperta del “paziente zero” ad oggi è trascorso poco più di un anno. Neanche nel peggiore degli scenari, avremmo pensato a distanza di oltre 365 giorni di essere più o meno nella medesima situazione, con l’Italia “a colori” , la curva dei contagi che non vuole piegarsi e la popolazione provata da sacrifici e restrizioni. Insomma, il rischio – più che concreto – è che la pandemia possa lasciare pesanti strascichi sulla salute della nostra psiche.
Formalmente nessuno ha il coraggio di usare la parola “lockdown”, ma la zona rossa ci somiglia molto. Che tipo di impatto psicologico può avere su una popolazione già provata da lunghi mesi di restrizione, questa nuova chiusura? Lo abbiamo chiesto a Felice Damiano Torricelli, Presidente ENPAP (Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi).
*Dal primo lockdown alle zone arancioni e rosse di questo momento, si è passati da una forma di “apparente” ottimismo (“andrà tutto bene”), legata anche alla mancanza di informazioni, a reazioni sempre più orientate allo scoramento e alla rabbia, soprattutto per il crescente senso di impotenza e la prolungata destrutturazione della quotidianità. Per i più giovani, ad esempio, l’assenza forzata da scuola sta diventando sempre più una complicazione sul piano psicologico: non solo per lo sviluppo delle competenze intellettuali e operative dei ragazzi, ma anche per le modalità con cui i giovani esprimono il loro bisogno di affermazione personale, che oggi sempre più spesso si manifesta con modalità anti sociali, come attraverso le risse di strada di cui abbiamo letto sulle cronache. L’ambiente scolastico aiuta a canalizzare questi bisogni, grazie al controllo sociale e alle regole di cui gli adulti sono garanti: se non si interviene, avremo sempre più fenomeni di questo genere”.
Allo stesso modo – prosegue Torricelli – ” limitando sempre di più le relazioni sociali codificate dall’istituzione scolastica non vengono facilitate le persone più fragili, coloro che avevano già prima della pandemia difficoltà a relazionarsi con gli altri. Sono aumentati i fenomeni di autolesionismo e i suicidi e, al contempo, in molti casi l’isolamento da forzato è diventato volontario, visto che la percezione di pericolosità e di incertezza nel mondo esterno alle mura di casa finisce per stabilizzarsi (si assiste alla cosiddetta sindrome della capanna). Dentro casa, al contempo, ci sono a volte situazioni relazionali complesse, che rendono esasperante la convivenza ed aumentano il disagio psicologico”.
TORRICELLI (ENPAP), ATTENZIONE AI PIU’ FRAGILI
Che cosa si può fare? “C’è bisogno di interventi a sostegno della sofferenza psicologica diffusa, con particolare attenzione alle fasce della popolazione più fragili, sia dal punto di vista sociale ed economico sia per condizione demografica, come gli anziani, i ragazzi, i bambini e le donne. Soprattutto per loro si dovrebbero prevedere servizi psicologici pubblici, più diffusi e resi accessibili, anche attraverso contributi economici pubblici e l’uso delle nuove tecnologie, volti a consentire la condivisione delle emozioni, così dirompenti, di questo periodo ma anche per attivare e canalizzare al meglio le risorse che ognuno di noi ha e che non si riescono più a vedere perché si è sopraffatti dall’angoscia, dall’ansia, dalla depressione e dal venir meno della speranza nel futuro”.
Nell’ultimo periodo, si parla sempre più spesso di smart working: dopo il massiccio ricorso nei mesi più critici dell’emergenza, sono in tanti a sostenere che ora serve una regolamentazione che ne definisca con chiarezza il perimetro. In quest’ottica, quali sono i rischi da evitare, per il presente, ma soprattutto per il futuro?
“Con il “lavoro a distanza” attivato di necessità nell’ultimo anno, il rischio per tanti è quello di non disconnettersi mai dal lavoro, cioè di non avere più tempi di attività definiti. Con la frammentazione delle attività dovuta, per esempio, alle tante interruzioni e distrazioni presenti nello spazio domestico, con tante persone tra adulti e bambini contemporaneamente impegnate nello studio o nel lavoro da casa, non è semplice portare a compimento una attività per volta ed è come se si lasciassero tanti file sul computer costantemente aperti, appesantendo l’elaborazione. E poi non si ha più uno spazio di decompressione in avvio e in chiusura della giornata lavorativa: quei tempi di preparazione e di trasferimento che erano “spazi cuscinetto”, utili a ricollocarsi nel nuovo contesto con cui si entrava e si usciva dal ruolo di lavoratore in modo più morbido e strutturato. Se a questo ci si aggiunge che a soffrire di più di questa condizione sono soprattutto, ancora una volta, le donne che faticano enormemente a conciliare famiglia, lavoro a casa e figli in didattica a distanza, appare chiaro che la situazione vada regolamentata rapidamente, per proteggere dall’iperstress che una situazione di questo genere ingenera nelle persone, soprattutto in una condizione di disagio diffuso e prolungato come quella determinata dalla pandemia e dalle misure adottate per contrastarla”.