Tutto quello che c’è da sapere sul Co.Co.Co., il contratto di collaborazione

Il contratto di collaborazione coordinata e continuativa è un rapporto di lavoro parasubordinato. Retribuzione, diritti e doveri del lavoratore con Co.Co.Co.

Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Quando si parla di Co.Co.Co. si parla di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa e, dunque, di lavoratori parasubordinati. Si tratta infatti di un contratto applicato a lavoratori che si trovano – in un certo senso – a metà strada tra il lavoro dipendente e il lavoro autonomo, motivo per cui tale tipologia di contratto può non essere di immediata comprensione.

In una sorta di rapporto di lavoro ‘ibrido’, i cosiddetti Co.Co.Co. lavorano infatti in piena autonomia operativa, non sono sottoposti ad alcun vincolo di subordinazione, ma hanno un rapporto unitario e continuativo con chi commissiona loro il lavoro.

Sono dunque formalmente inseriti nell’organizzazione aziendale e possono operare all’interno del ciclo produttivo del committente, che ha il potere di coordinare l’attività del lavoratore con le esigenze dell’organizzazione aziendale.

Dopo queste premesse, vediamo più da vicino tale contratto di collaborazione e scopriamone insieme i punti chiave.

Le caratteristiche del contratto di collaborazione coordinata e continuativa

Come riportato anche sul sito dell’Inps, il contratto di collaborazione coordinata e continuativa ha precise caratteristiche che il committente ha l’obbligo di rispettare. La prima è l’autonomia: è il lavoratore a decidere tempi e modalità d’esecuzione della commessa, sebbene possa impiegare – oltre o in alternativa ai mezzi suoi – quelli del committente. In secondo luogo, la continuità: questa non va ravvisata tanto nella reiterazione degli adempimenti, quanto nella permanenza del vincolo che lega le due parti. Se tale requisito manca, si parla infatti di collaborazione occasionale e non più di Co.Co.Co.

L’unico vero limite all’autonomia operativa del collaboratore – tratto distintivo di questa tipologia di lavoro – è rappresentata dall’organizzazione aziendale esercitata dal committente, mentre la retribuzione deve essere corrisposta in forma periodica e prestabilita. Quali lavori possono essere oggetto del contratto di collaborazione? Se fino al 2001 la professione doveva avere un contenuto artistico-professionale, a partire da quella data anche le attività manuali e operative sono diventate potenziali oggetto di contratti Co.Co.Co., purché il rapporto lavorativo conservi il suo carattere autonomo.

Non è facilissimo comprendere però cosa si intenda per prestazione continuativa e personale – la prevalente personalità (e non più la totale personalità della prestazione come indicava invece il decreto attuativo del Jobs Act) della prestazione è una delle caratteristiche del contratto di collaborazione: le prestazioni esclusivamente personali sono quelle svolte dal titolare del rapporto senza l’ausilio di altri soggetti, mentre il termine continuativo fa riferimento al ripetersi di una attività in un determinato arco di tempo, affinché il lavoratore raggiunga l’obiettivo della commessa.

Il regime fiscale, i contributi e i versamenti

Ai fini fiscali, i redditi percepiti dai Co.Co.Co. sono stati considerati redditi di lavoro autonomo fino al 31 dicembre 2000, redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente dall’1 gennaio 2001. Un’assimilazione, questa, che vale solo a fini – per l’appunto – fiscali: il regime giuridico da applicare è rimasto invece quello del lavoro autonomo, e non richiede dunque l’applicazione del principio di automaticità delle prestazioni.

I lavoratori co.co.co sono iscritti alla Gestione separata Inps, oppure a quelle specifiche in ipotesi di lavoratori con una cassa previdenziale propria, e sono assicurati contro gli eventi rappresentatati dagli infortuni e dalle malattie professionali.

Per quanto riguarda i contributi, se nel caso di un lavoratore autonomo è lui a pagare tasse e contributi sul compenso ricevuto sulla base del suo regime fiscale e previdenziale, in un contratto di collaborazione coordinata e continuativa questi sono per ⅔ a carico del committente e per ⅓ a carico del collaboratore. L’obbligo di versamento dei contributi (scopri qui quelli nascosti) compete per intero al committente, che andrà a trattenere dalla busta paga anche la quota dovuta dal lavoratore (come accade nel lavoro subordinato).

L’operazione in oggetto si verifica perché il lavoro con Co.Co.Co. è assimilato al lavoro dipendente, e di conseguenza il committente sarà tenuto ad emettere una busta paga in cui dettaglia compensi e contributi versati. Ne deriva che nessuna norma di legge impone a questi lavoratori l’apertura di una partita Iva.

L’orario di lavoro nel Co.Co.Co.

Ecco dunque la domanda cruciale: chi ha un contratto di collaborazione coordinata e continuativa è tenuto a rispettare un orario di lavoro? La risposta è no, ed è uno dei principali (e pochi) vantaggi di una collaborazione di questo tipo: il lavoratore Co.Co.Co. viene ripagato con un compenso mensile senza un orario di lavoro fisso o, meglio, secondo un’attività coordinata senza vincoli d’orario.

Il Jobs Act lo dice chiaramente:

Viene prevista l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato nell’ipotesi di rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali e continuative, le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.

Dunque, se il committente richiede che venga rispettato un orario di lavoro, il lavoratore non sarà più un collaboratore ma un dipendente.

Un contratto di Co.Co.Co. stabilisce un determinato compenso mensile per una determinata prestazione, e il committente è tenuto a corrisponderlo indipendentemente da quando la prestazione sia stata erogata e in quanto tempo.

Se al lavoratore è richiesta invece la presenza in sede per un certo numero di giorni o di ore, si parla di contratto di tipo subordinato. Perché è proprio questo il senso di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa: permettere al lavoratore di organizzare in autonomia la propria attività, senza subire imposizioni da parte del committente.

Co.Co.Co.: requisiti minimi e indennità

Uno dei motivi per cui il contratto di collaborazione coordinata e continuativa è considerato una sorta di “contratto di serie b” è data dal fatto che tale contratto non ha mai avuto una normativa di riferimento, che ne regolasse integralmente forma e contenuti. Le norme esistenti disciplinano infatti le questioni di carattere processuale, equiparandolo – a livello di disciplina processuale – al lavoro subordinato.

La legge, in linea generale e ove possibile, infatti indica che in materia di contratti co.co.co. debbono essere applicate le regole della disciplina del lavoro subordinato.

Ma attenzione perché un contratto Co.Co.Co. non ha comunque una forma o dei contenuti minimi da rispettare. Le sue caratteristiche sono rimesse infatti alla libera determinazione delle parti.

Tuttavia, in genere contiene almeno: le generalità dell’azienda committente e del collaboratore; il tempo di esecuzione (con un termine massimo, o a tempo indeterminato); il recesso che, secondo quanto stabilito dal Jobs Act, è nullo senza un congruo preavviso a favore del collaboratore; il compenso per il lavoratore con le modalità di erogazione e le norme sugli eventuali rimborsi spese; l’attività e i servizi che il collaboratore si impegna a realizzare; una clausola sulla privacy e una sulla riservatezza.

Oggi i lavoratori co.co.co. hanno diritto ad incassare alcune indennità, ossia quelle di:

Ultimo a pronunciarsi sul tema del contratto di collaborazione coordinata e continuativa è stato il Jobs Act. Secondo quanto si legge, quando la collaborazione è prevalentemente personale e continuativa ed è il committente a definire luoghi e tempi di lavoro, si parla di lavoro subordinato e non di Co.Co.Co.

E, dunque, l’azienda è tenuta a riconoscere al lavoratore quanto la legge stabilisce per i dipendenti: orario di lavoro, ferie, permessi, diritti sindacali, tutela della salute e della sicurezza, paga oraria sulla base del contratto nazionale di categoria, mansioni, contributi previdenziali e assistenziali e via dicendo.

Le eccezioni all’applicazione automatica del lavoro subordinato

Ci sono però casi in cui l’applicazione automatica della disciplina del lavoro subordinato, per estensione, è esclusa. Lo indica infatti chiaramente il Ministero del Lavoro.

Ecco i casi:

Co.Co.Co. e diritto alla Dis-Coll

Quando il Jobs Act è stato emanato, diversi sono i cambiamenti che il mondo dei Co.Co.Co. ha vissuto. In primis, è stato abolito il mini Co.Co.Co., contratto di lavoro coordinato e continuativo occasionale dalla durata complessiva di 30 giorni (in un anno) ed entro un limite di 5.000 euro. Allo stesso modo sono stati aboliti i contratti a progetto, i cosiddetti Co.Co.Pro.

Fu introdotta invece la Dis-Coll, indennità di disoccupazione che spetta ai Co.Co.Co. che abbiano perduto non per propria volontà la loro occupazione, e che può essere richiesta anche da assegnisti e dottorandi di ricerca con borsa di studio. Per richiederla occorre essere iscritti in via esclusiva alla Gestione Separata dell’Inps, avere uno stato di disoccupazione e almeno un mese di contribuzione nel periodo compreso tra l’1 gennaio dell’anno civile precedente l’evento di disoccupazione e l’evento stesso.

Come spiega Inps nel proprio sito web, la Dis-Coll è versata ogni mese per un numero di mesi uguale ai mesi di contribuzione accreditati nel periodo compreso tra il 1° gennaio dell’anno anteriore all’evento di cessazione del lavoro e il citato evento. In ogni caso, la prestazione può essere versata per una durata massima di un anno. L’indennità di disoccupazione in oggetto corrisponde al 75% del reddito medio mensile.

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