Era nell’aria da giorni e alla fine l’annuncio è arrivato: Israele e Hamas hanno raggiunto un accordo sul cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Niente di definitivo e neanche di definito, perché l’obiettivo di Israele resta il pieno controllo del territorio che va dal Mediterraneo alla Valle del Giordano.
Di traverso si sono però messi gli Stati Uniti, prossimi al cambio di presidenza. La retorica promessa di Trump di “porre fine a tutte le guerre” andava rispettata almeno nella forma. Nella sostanza, però il conflitto che prosegue terribile (almeno) da metà Novecento non finirà qui. Non certo alle fragili condizioni discusse dalle parti.
Cosa prevede il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, spiegato
Per comprendere davvero il senso di questa tregua, dobbiamo avere presente la realtà del terreno che l’ha generata. Hamas è stato notevolmente indebolito nella sua capacità militare, l’Iran ha perso gran parte della sua influenza e della sua presenza in Siria e Israele ha corso troppo a lungo con le armi in mano per poter continuare a trattenere il fiato. I propagandistici annunci di Donald Trump hanno dato la spinta finale a un accordo inseguito e infangato per 15 mesi di morte e distruzione. Non che qualcuno sano di mente creda davvero che le ostilità finiscano qui, intendiamoci, ma l’intesa fra Stato ebraico e fondamentalisti della Striscia rappresenta in ogni caso una svolta nella guerra mediorientale.
Come nelle altre tregue negoziati, si procederà per fasi, a partire dal rilascio di ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi per arrivare alla ricostruzione post-guerra tra gestione della catastrofe umanitaria e ripristino della sicurezza. La vera domanda è: chi comanderà? Sulla carta la prima fase prevede un graduale ritiro delle forze israeliane da Gaza, seguita da scambio di prigionieri, ritorno dei rifugiati e coordinamento umanitario.
L’obiettivo dichiarato è “raggiungere la piena attuazione dell’accordo entro il 27 maggio, garantendo il cessate il fuoco permanente”. Difficile, a dir poco. La fasi, alla fine della fiera, dovrebbero essere sostanzialmente tre. A decorrere da domenica 19 gennaio. Ma, checché ne pontifichino i media di mezzo mondo, i dettagli completi arriveranno solo dopo i colloqui stabiliti per il 16esimo giorno dalla firma dell’intesa. Vale a dire il 31 gennaio. Il cessate il fuoco dovrebbe durare in tutto 42 giorni.
Prima fase: ritiro degli israeliani e primo scambio
L’articolo 2 dell’accordo stabilisce che le forze israeliane si ritireranno dalle aree densamente popolate della Striscia per posizionarsi “a una distanza massima di 700 metri dalla linea di confine“. In questa prima fase avverrà la tranche iniziale di scambio prigionieri: saranno rilasciati 33 ostaggi israeliani in cambio di 110 detenuti palestinesi. Verranno liberati altri mille palestinesi arrestati a Gaza dopo l’8 ottobre 2023, a condizione che non abbiano partecipato direttamente alle ostilità (“azioni terroristiche”, secondo il dettato della delegazione di Tel Aviv).
Seconda fase: liberazione di tutti gli ostaggi
La seconda fase deve ancora essere discussa, le sole notizie certe arriveranno fra due settimane. Dovrebbero comunque essere rilasciati tutti i rimanenti ostaggi maschi e le forze israeliane dovrebbero ritirarsi quasi completamente dalla Striscia.
Terza fase: il dopoguerra di Gaza
La terza e ultima fase del patto prevede innanzitutto la restituzione dei corpi degli ostaggi uccisi mentre erano detenuti a Gaza. Dopodiché si aprirà il tavolo per il piano di ricostruzione materiale e la formazione di un governo palestinese che vada bene a tutte le parti coinvolte. Pia illusione, vista la volontà israeliana di controllare il territorio e il proposito strategico americano di impedire una nuova penetrazione iraniana nella Striscia.
Il Valico di Rafah, gli sfollati e l’emergenza umanitaria
Un punto fondamentale dell’intera disposizione diplomatica riguarda l’apertura del Valico di Rafah per l’assistenza umanitaria. Israele ha acconsentito al passaggio di convogli da entrambe le direzioni per accogliere feriti e malati palestinesi e per consentire il trasferimento di pazienti in Egitto sette giorni dopo l’avvio della prima fase. L’articolo 7 stabilisce poi che “sarà consentito il ritorno degli sfollati nelle loro case, principalmente nelle aree settentrionali della Striscia di Gaza”.
Tuttavia, il rientro sarà subordinato a rigorose ispezioni per garantire che non vengano riportate armi. Punto debolissimo, perché dà ancora una volta adito a Israele di sostenere la natura terroristica dei flussi e di rompere dunque la tregua. Il testo prevede anche controlli sui veicoli e l’autorizzazione al transito sotto la supervisione dei mediatori internazionali (altra debole garanzia, come dimostrato finora). Entro 50 giorni dall’inizio dell’intesa, le forze israeliane completeranno il loro ritiro dal “Corridoio Filadelfia”, l’area al confine tra Gaza ed Egitto.
Perché ora: cosa c’è (davvero) dietro la tregua in Medio Oriente
Il tempismo si deve nella retorica all’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Nei fatti, tutti gli attori coinvolti ne avevano bisogno. Secondo gli Usa, come certificato dal segretario di Stato Antony Blinken, Hamas non può essere sconfitto del tutto. Il gruppo palestinese dispone al momento di circa 30mila combattenti, ma le reclute aumenteranno esponenzialmente dopo la fine del conflitto armato. Per effetto del sempre più diffuso sentimento anti-occidentale e della repressione decennale da parte di Israele. Un chiaro indizio di questo trend è riscontrabile negli ultimi dati sull’arruolamento di centinaia di giovani tra le fila del Movimento di Resistenza Islamica.
È una questione matematica: il Pentagono ha osservato che i miliziani di Hamas e Jihad Islamico si rinnovano a un ritmo superiore rispetto alla capacità di Israele di eliminarli. L’ondata di uccisioni mirate dei capi delle organizzazioni filo-iraniane della Mezzaluna Sciita hanno fomentato il consenso a favore di Hamas e soci, destinato a crescere proprio per effetto della decapitazione dei suoi vertici, come l’assassinio di Ismail Haniyeh nel luglio 2024.
Tregua fragile, pace impossibile
I propositi strategici, dunque di sopravvivenza, di Israele e Hamas sono diametralmente opposti. Figurarsi quelli dell’Iran, che ha potenziato i suoi satelliti dalla Siria a Gaza, dal Libano allo Yemen. E che ora non riesce più a farlo allo stesso modo. Il governo Netanyahu l’ha ammesso senza troppi giri di parole: l’obiettivo primario dello Stato ebraico è impedire l’ascesa nucleare di Teheran. Se dovesse arricchire l’uranio oltre la soglia attuale e se dovesse ottenere la bomba atomica, la Repubblica Islamica ridisegnerebbe completamente gli equilibri globali. Neanche i nemici degli Stati Uniti lo vogliono.
L’obiettivo tattico a breve termine per Usa e Israele resta la normalizzazione diplomatica, militare ed economica coi Paesi arabi, incarnata dagli Accordi di Abramo. Mettendo in pausa il conflitto diretto con Hamas consentirebbe ai due Paesi di concentrarsi su tale sforzo. Il parallelo programma di avvicinamento dell’Iran all’Arabia Saudita preoccupa, ma non come prima. Lo scotto da pagare, sancito anche dagli intenti sottoscritti nella tregua, sarà la formazione di uno Stato palestinese. Ma dove dovrebbe sorgere esattamente?
Purtroppo non è questo il punto. La soluzione dei due Stati sembra davvero morta e sepolta. Come sottolineato da Hanān ‘Asrawi, portavoce della delegazione palestinese ai colloqui per gli Accordi di Oslo del 1993, “il problema non è la smilitarizzazione dell’ipotetico Stato, ma la sua piena sovranità territoriale, l’intangibilità dei confini, il controllo delle risorse idriche senza le quali i palestinesi restano dipendenti dagli aiuti internazionali. Oggi nessun leader israeliano si spenderebbe per una pace giusta”. Intanto le bombe continuano a cadere. E non sarà l’ennesima fragile tregua a fermarle.