Pensioni baby, conto salato per le casse dell’INPS: 7 miliardi l’anno

Secondo uno studio della CGIA di Mestre, in Italia ci sono oltre 500 mila baby pensionati, che pesano sulle casse dello stato per lo 0,7% del PIL

Miriam Carraretto

Giornalista politico-economica

Esperienza ventennale come caporedattrice e giornalista, sia carta che web. Specializzata in politica, economia, società, green e scenari internazionali.

Il tema delle pensioni, e dell’età pensionabile in particolare, è uno dei più delicati su cui si confrontano ormai da tempo le forze politiche, quelle sindacali e anche quelle della società civile. E che, stando a diversi analisti, finirà anche sul tavolo di confronto con la Commissione Europea per la concessione di parte dei 200 miliardi del Recovery Fund.

Quota 100 e le pensioni baby, infatti, sembrano essere finite nel mirino della Commissione, che potrebbe chiederne una revisione – o la sospensione definitiva, come nel caso della riforma targata Governo Lega-M5s – in “cambio” di decine e decine di miliardi del piano “Next Gen EU”. Un’ipotesi contemplata, ad esempio, dal Centro Studi della CGIA di Mestre che, dati INPS alla mano, ha calcolato quanto costano ogni anno le decine di migliaia di baby pensionati che vivono nel nostro Paese. Un vero e proprio esercito che, anno dopo anno, presenta un conto piuttosto salato alle casse dell’Istituto di Previdenza.

Baby pensioni: chi sono e quanti sono

Per condurre la sua analisi, come accennato, il Centro Studi CGIA ha preso in considerazione i dati resi pubblici dall’INPS riguardanti l’età media dei pensionati e gli anni di godimento del trattamento pensionistico. In particolare, secondo la CGIA i baby pensionati sono tutte quelle persone ritirate dal mondo del lavoro prima del 1980 e che, dunque, non timbrano più il cartellino da oltre 40 anni.

Si tratta di circa 562 mila persone che, grazie a una legislazione particolarmente favorevole, sono andati in pensione a cavallo tra la metà e la fine degli Anni ’70 quando avevano appena compiuto 40 anni. Secondo le statistiche rilevate dalla CGIA, infatti, mediamente i dipendenti pubblici hanno lasciato il posto di lavoro  a 41,9 anni, mentre nella gestione privata l’età media di decorrenza del trattamento pensionistico è scattata dopo (ma non di molto, a 42,7 anni).

Dell’oltre mezzo milione di baby pensionati, l’80% circa è composto da donne (446 mila su 562 mila), ma con un’età media superiore rispetto ai “colleghi” maschi (43,2 anni per le donne, 40,6 anni per gli uomini).

Quanto ci costano i baby pensionati

L’INPS sostiene un conto piuttosto oneroso ogni anno, come è prevedibile. Secondo quanto riportato dalla CGIA, i 562 mila baby pensionati comportano una spesa di 7 miliardi di euro, che rappresentano lo 0,7% del PIL nazionale. Questo importo è comparabile a quello destinato alle pensioni e al reddito di cittadinanza e inferiore di 2 miliardi di euro rispetto alla controversa Quota 100, la cui spesa è stata ampiamente criticata.
La gestione delle pensioni baby rappresenta quindi una voce significativa nelle spese previdenziali complessive dell’Italia. Secondo le analisi della CGIA, il costo annuale associato a questa categoria di pensionati è notevole e incide sul bilancio nazionale. Tuttavia, è importante considerare che il contributo di tali spese al PIL nazionale è relativamente limitato, rappresentando solo lo 0,7% del totale.
È interessante poi notare che l’importo speso per tali assegni è paragonabile a quello destinato ad altre forme di sostegno finanziario, come il reddito di cittadinanza.

“Non c’è nulla da stupirsi – afferma il segretario della Cgia Renato Masonse – se nello scacchiere europeo l’Italia, anche al netto delle uscite assistenziali, sia da anni tra i paesi che spendono di più per la previdenza, sacrificando altri settori come quello dell’istruzione, dove siamo tra le realtà che in Europa investono meno”.

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