Matteo Ward, di mamma Vicentina e papà Americano, sognava da piccolo di diventare il presidente degli Stati Uniti, invece gli è andata molto meglio perché oggi è il CEO e cofounder di WRÅD, design studio per lo sviluppo sostenibile e società beneft già vincitrice del Best of the Best RedDot Product Design Award e inserita da ADI nell’ADI Design Index 2019 per l’innovazione e l’inserimento nella Galleria delle Eccellenze italiane.
Ha iniziato a parlare di sostenibilità nel 2015, quando ancora non andava di “moda” e le aziende gli chiudevano la porta in faccia. Ma facciamo un ulteriore passo indietro per capire il perché e da dove viene il suo percorso nella sostenibilità. Appena laureato inizia a lavorare per Abercrombie & Fitch, ricoprendo i ruoli di Sr. Manager e co-amministratore del Diversity & Inclusion Council. Finché ad un certo punto fa una scoperta: “Quello che indossiamo costa molto di più di quello che lo paghiamo? Sono gli anni della caduta del Rana Plaza, milioni di donne e bambini muoiono sotto le macerie per realizzare i capi di fast fashion a prezzi sempre più bassi. Diventa un peso inaccettabile, si licenzia, e insieme a due amici parte per un viaggio in giro per l’Europa. Lo scopo era quello di educare sé stessi sul reale costo della moda e attivare una community di persone desiderose di mettere in discussione lo status quo.
WRÅD nasce così tra le strade delle principali città Europee e la voglia di innescare una rivoluzione positiva perché il suo motto sin da allora è : “Challenge the status quo” Gli danno fiducia 3 soci, i suoi business angels, che credono, assieme a Matteo, che sistema moda doveva essere messo in discussione. Iniziano a fare impresa: i pilastri di WRÅD dal 2018 rimangono la parte Educativa e la Consulenza alle aziende, questa volta però le porte gliele aprono tutte. Matteo ricopre anche i ruoli di Vice presidente di Fashion Revolution Italia, è textile expert della Commissione Europea per il New European Bauhaus Festival, docente universitario, coautore e presentatore di JUNK, una docu-serie co-prodotta da Sky Italia e Will Media. Viene spesso coinvolto come esperto e key opinion leader in contesti nazionali ed internazionali, incluse le Nazioni Unite e la Commissione Europea.
Durante l’ultima edizione a Venezia del Fashion Revolution abbiamo incontrato Matteo Ward per farci spiegare bene cosa la moda dovrebbe fare per migliorare lo stato di salute del nostro pianeta.
Nella moda ormai tutti parlano di questo argomento e la sostenibilità è diventata una parola altamente abusata. Quanto è comunicazione e quanto invece è effettivamente sorretta da azioni concrete di cambiamento?
Ci sono due modi per rispondere a questa domanda: il primo, basandoci su alcune statistiche. Uno studio commissionato dalla Commissione Europea del 2020 ha riscontrato che il 53% dei messaggi di sostenibilità di una selezione di aziende analizzate fosse falso o fuorviante. Questo ci fa capire che c’è ancora tanta comunicazione e poca concretezza. Però c’è un’altra considerazione da fare, il che mi porta a darti una seconda risposta forse più ottimista e realista: siamo in una fase di transizione e di cambiamento radicale in cui le azioni e i programmi delle aziende sono manifesto della consapevolezza di un cambiamento culturale nelle persone che non solo non può essere veloce ma non è neppure semplice. Negli ultimi 10 anni ho l’impressione che la maggior parte di noi, io incluso nei miei primi anni di lavoro, ci siamo dati una definizione sbagliata, parziale e fondamentalmente antropocentrica di sostenibilità. E quando la definizione che ti dai di un principio è fallato, per forza di cose sbagliate saranno anche le politiche, strategie e tattiche che metterai in campo per realizzarlo. Inoltre non dimentichiamo che abbracciare il reale significato di sostenibilità significa mettere in discussione le ragioni ontologiche del nostro modo di fare impresa. Significa avere il coraggio di prendere decisioni non facilmente giustificabili né incentivate dai KPI aziendali che abbiamo adottato fino ad oggi. Quello che vedo nelle aziende oggi, manifestata dai dipendenti, è una genuina e motivante voglia di agire per il cambiamento ma al tempo stesso confusione e paura su come realizzarlo. Spesso ci si paralizza, spesso si fanno errori, e per quanto preferirei che non fosse così, vista l’urgenza del momento storico, credo sia fisiologico questo momento di transito. Sono fiducioso. Ma per catalizzare la comparsa di programmi concreti e tattiche efficaci servono supporto culturale, finanziario e normativo.
Quali sono gli obblighi normativi in materia?
Due anni fa la Commissione Europa ha pubblicato la EU Strategy for Sustainability and Circularity of Textiles. Una strategia che ha motivato la proposta e voto di una serie di direttive che nei prossimi anni determineranno non solo il modo in cui uffici stile e prodotto dovranno creare i vestiti, attenendosi a linee guida che secondo me diventeranno sempre più specifiche per ogni categoria, ma anche il modo in cui i vestiti vengono comunicati, venduti e gestiti una volta dismessi. Direttive, leggi e regolamenti di questo tipo sono oggi in discussione e iter di approvazione non solo a livello europeo ma anche nazionale, Francia in primis.
È possibile produrre capi sostenibili al 100% oppure no?
No. Oggi non è possibile. Quando si legge ‘moda sostenibile’ dobbiamo in realtà leggere ‘moda a limitato impatto ambientale e/o a massimale impatto sociale’. La promessa di sostenibilità di un capo si realizza nella sua funzione – oggi non ci sono le condizioni culturali e industriali per far sì che la funzione di un abito sia allineata al 100% con le reali esigenze di ogni essere vivente, umano ed extra-umano. Ma bene che se ne parli, se non ne parlassimo non potremmo visualizzare l’obiettivo al quale ambire. La sostenibilità è un’utopia necessaria e, cito Enzo Mari, l’utopia è il corrimano etico della società.
Green Washing, ci fai chiarezza una volta per tutte?
Illudere il cliente che attraverso la produzione e acquisto di un prodotto o servizio si apporta un contributo sociale e/ o ambientale positivo. Il termine viene coniato negli anni ‘80.
Le nuove generazioni sono più sensibili a questo argomento?
Decisamente si. Non solo, si sono davvero stufate di essere prese per i fondelli, non sanno più a chi credere in un contesto commerciale in cui tutti fanno a gara a chi è più green, perdono quindi fiducia nei brand e in loro stessi: molti soffrono di eco-ansia, faticano a capire cosa possono fare per mettere in discussione lo status quo.
Abbiamo visto il tuo docufilm Junk Armadi Pieni, che cosa ti ha colpito maggiormente?
La scossa sismica interiore (ancora in corso) l’abbiamo sentita tutti mentre stavamo in Ghana, paese ferito da secoli di oppressione amplificata da un certo tipo di fare moda – ferite visibili sulla pelle delle sue persone e sulla terra delle sue coste e campagne. Dal Ghana venivano esportati esseri umani ridotti poi alla condizione di schiavi nelle piantagioni di cotone negli USA. Oggi in Ghana viene importato il sottoprodotto di un sistema che hanno, contro la loro volontà, contribuito a costruire. Sottoprodotto che ha la forma di vestiti di scarto, 15 milioni a settimana per l’esattezza. Scarti che uccidono le persone e il territorio, sommerso dai nostri vestiti – gli scienziati lo chiamano Antropocene, un termine decisamente troppo romantico per descrivere l’orrore che abbiamo visto in Ghana.
Credi sia possibile risolvere questo problema entro i prossimi 20 anni?
Credo più che altro sia necessario e urgente. Il sistema moda estrae risorse essenziali scarse per produrre, in queste quantità, prodotti non essenziali, 150 miliardi di prodotti ogni anno per l’esattezza. E’ questione di priorità e sopravvivenza.
Quali sono i paesi più sensibili su questo argomento e come si stanno muovendo?
Francia, USA, Europa. La direzione è comune: cercare di imporre un sistema di due diligence che obblighi le aziende a garantire stipendi e condizioni di lavoro adeguate in tutto il mondo, imporre standard di comunicazione veritieri e precisi, obbligare i brand a prendersi cura di ogni prodotto anche nella fase di post-vendita, uso e consumo, per limitare scarti e a tendere la sovrapproduzione.
Quali sono state le risposte del Fast fashion alle accuse che Junk ha sollevato?
Siamo orgogliosi di un paio di cose: non ci sono state risposte pubbliche ma JUNK è entrato in tante aziende come strumento formativo. Sappiamo che ci sono state proiezioni private negli uffici di tanti brand, questo perché JUNK non nasce con l’intento di affossare o distruggere. Al contrario, fa vedere una realtà oggettiva per ricostruire ed evolvere, soprattutto perché è stato scritto e curato da persone che di fondo amano la moda. La seconda cosa di cui siamo orgoglioso è che sono stati emessi dei mandati di arresto da parte di un paese e ostruzionismo politico da parte di un altro, per alcune verità che abbiamo rivelato. Significa che abbiamo fatto bene il nostro lavoro.
Ci sono maison o brand più sensibili di altri e che hanno già messo in atto il cambiamento?
Si, non posso far nomi perché con tutti i nostri partner firmiamo NDA, ma in ogni brand e maison oggi ci sono persone sensibili, attente, consapevoli che con fatica e resilienza cercano di portare avanti tattiche e strategie per l’evoluzione sostenibile del settore.
Come singoli individui che atteggiamento dovremmo avere?
Ricordarsi che il cambiamento è possibile e che a realizzarlo siamo noi. Noi in ogni nostra decisione d’acquisto, i politici, i designer, i commercianti, il mercato – siamo tutti attori e autori di un sistema che deve essere ridefinito. Non possiamo aspettare un deus ex machina che arrivi a sistemare le cose. Chi ha il lusso di essere libero deve prendersi la responsabilità di agire, libertà non è alienazione dalla realtà.