Referendum contro il Jobs Act, anche Schlein a sostegno: cosa cambierebbe per i lavoratori

Elly Schlein firmerà il referendum contro il Jobs Act proposto dalla Cgil: cosa cambierebbe per i lavoratori se passasse

Pubblicato: 6 Maggio 2024 12:34

Matteo Runchi

Editor esperto di economia e attualità

Redattore esperto di tecnologia e esteri, scrive di attualità, cronaca ed economia

La segretaria del Partito Democratico Elly Schlein ha annunciato che firmerà il referendum proposto dalla Cgil per l’abolizione del Jobs Act, la riforma sul mercato del lavoro voluta dal governo Renzi nel 2016. Una scelta che va contro a quanto sostengono diversi membri dello stesso Pd, tra cui il responsabile per l’economia.

Schlein ha anche approfittato dell’annuncio per riportare l’attenzione su altri temi legati al lavoro, come la proposta del Pd per un salario minimo nazionale a 9 euro all’ora. I dati sull’occupazione intanto continuano a essere positivi, con nuovi record storici di persone con un posto di lavoro e un’alta percentuale di contratti a tempo indeterminato.

Schlein contro il Jobs Act: firmerà il referendum

Elly Schlein, segretaria del Partito Democratico, ha annunciato che firmerà il referendum in quattro quesiti promosso dalla Cgil, uno dei principali sindacati italiani, per abolire il Jobs Act, la riforma del mercato del lavoro voluta dal governo Renzi nel 2015: “Ho già detto che molti del Pd firmeranno così come altri non lo faranno. Io mi metto tra coloro che lo faranno. Non potrei far diversamente visto che è un punto qualificante della mozione con cui ho vinto le primarie l’anno scorso” ha dichiarato Schlein.

Il riferimento della segretaria del Pd al dissenso interno nel partito su questa scelta si rifà alla posizione di Antonio Misani, il responsabile economico dei democratici. Secondo quanto riportato dal Foglio, in passato Misani aveva sostenuto con forza il Jobs Act, definendolo “La riforma del lavoro più ambiziosa dal 1997” e curando nel 2015, quando era in commissione bilancio, un primo studio sugli effetti della misura che aveva rilevato dati positivi.

Al contrario, i sindacati, in particolare la Cgil, hanno criticato fin dalla sua approvazione la norma. In particolare, le proteste dei rappresentanti dei lavoratori si concentravano sull’abolizione parziale dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che impediva ai datori di lavoro di licenziare i propri dipendenti a meno che fosse presente una giusta causa. Il referendum che si propone di abrogare il Jobs Act si articola su quattro quesiti.

Cos’è il Jobs Act: i risultati dell’occupazione in Italia

La legge che il referendum della Cgil vuole abrogare, il Jobs Act, fu approvata dal governo Renzi nel 2015. Si tratta di una riforma del mercato del lavoro che aveva come obiettivo quello di aumentare l’occupazione e rendere più facile cambiare occupazione durante la carriera. Per ottenere questo risultato, l’esecutivo modificò lo statuto dei lavoratori, imponendo un periodo di 3 anni in cui ai contratti a tempo indeterminato non si applicavano le tutele dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che permette il licenziamento soltanto per giusta causa.

Il Jobs Act prevedeva anche la possibilità di prolungare i contratti a tempo determinato per 5 volte, con l’automatica conversione in tempo indeterminato al sesto rinnovo, la rimodulazione dei contratti da lavoro dipendente, la riforma dei sussidi di disoccupazione con l’introduzione della Naspi e un piano di incentivi tramite decontribuzione per favorire le assunzioni a tempo indeterminato da parte delle aziende.

Dal 2015 l’occupazione in Italia è sempre aumentata, con l’eccezione del periodo dei lockdown dovuti alla pandemia da Covid-19. Una tendenza presente fin dal 2013, anno con i dati peggiori dell’occupazione degli ultimi 25, ma con pendenze diverse delle curve. Gli occupati hanno raggiunto dati record a livello assoluto nella storia del nostro Paese negli ultimi mesi, anche grazie a una tendenza delle aziende ad investire in personale piuttosto che in strumentazione per controbilanciare la scarsa produttività. I tassi di disoccupazione e in attività sono in continuo calo da circa 10 anni, sempre con l’eccezione del 2020.

Anche i contratti a tempo indeterminato sono aumentati sia in valori assoluti che in percentuale su quelli totali. Oggi circa 16 milioni di lavoratori dipendenti lavorano grazie a questi accordi, circa l’80% del totale dei lavoratori non autonomi nel nostro Paese.

Schlein e il salario minimo: perché alla Cgil non piace la misura

Durante il suo annuncio riguardo al referendum sul Jobs Act, Elly Schlein ha anche tenuto a riportare l’attenzione su alcune delle proposte del Pd in materia di lavoro: “Voglio ricordare in cosa consiste la nostra proposta, una proposta di civiltà. Una proposta che dice che sotto i 9 euro non è lavoro, è sfruttamento, e non può essere legale. Una proposta che chiede di rafforzare la contrattazione collettiva, proprio quella su cui fanno tanti sforzi i sindacati ma che troppo spesso si vedono scalzati da dei contratti pirata firmati da organizzazioni che non sono realmente rappresentative di lavoratrici e lavoratori” ha ricordato la segretaria dei democratici.

“Quindi anche se Giorgia Meloni continua a voltare la faccia dall’altra parte e a calpestare i diritti di 3 milioni di lavoratrici e lavoratori poveri, il Pd continuerà e raccoglierà le firme per una legge di iniziativa popolare sul salario minimo per sfidare il governo, per vedere se anche con le migliaia di firme dei cittadini avranno il coraggio di svuotare la proposta che con le opposizioni abbiamo già portato alla Camera” ha poi concluso.

Il tema del salario minimo non è però storicamente una battaglia cara ai sindacati italiani. Nel nostro Paese non esiste una misura di questo tipo, molto comune in altri Stati europei, a causa della diffusione capillare dei contratti nazionali collettivi. Questi accordi vedono sindacati e rappresentanti degli imprenditori di alcuni settori trattare senza l’intervento dello Stato sulle retribuzioni e sui benefit da dare ai lavoratori di quel segmento per contratto.

La presenza di un salario minimo indebolirebbe in teoria la posizione dei sindacati in queste contrattazioni. I lavoratori infatti si potrebbero sentire più sicuri anche in assenza di un contratto nazionale e questo potrebbe ridurre il tasso di sindacalizzazione della forza lavoro.

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