Mentire sul curriculum vitae per farlo apparire più ricco di esperienze lavorative e aumentare le chance di essere assunti può essere molto rischioso. Non si tratta soltanto di una brutta figura, dopo essere stati scoperti dal capo o dall’addetto alle risorse umane, ma anche di un comportamento che non può essere, in alcun modo, scusato o perdonato e che, quindi, porta dritti al licenziamento per giusta causa. Lo ha chiarito il tribunale di Roma con la sentenza n. 10463 di quest’anno.
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Il caso dell’hostess licenziata per aver scritto bugie nel CV
I fatti sono emblematici e lasciano immediatamente intuire che cosa non bisogna mai fare per ottenere un contratto di lavoro. Senza svolgere alcun periodo di prova, una donna era stata assunta a tempo indeterminato come hostess per una compagnia aerea. L’immediato passaggio alla stabilizzazione era avvenuto proprio in virtù delle esperienze professionali dichiarate nel suo CV, nelle e-mail e nei colloqui con i responsabili.
Da successive verifiche svolte dall’azienda, queste esperienze si sono però rivelate inesistenti. La dipendente aveva mentito sul proprio percorso lavorativo per farsi assumere e ottenere un posto che, altrimenti, sarebbe spettato a un’altra persona.
In particolare, dopo la firma del contratto, al fine di ottenere il certificato di membro dell’equipaggio, la donna aveva firmato una dichiarazione sostitutiva di certificazione, prevista dalla legge. Nel documento era menzionato lo svolgimento di attività lavorativa presso la stessa compagnia, per più di una decina d’anni.
Proprio questa circostanza si è rivelata impossibile, considerato che in quel periodo la compagnia si trovava in fase di amministrazione straordinaria. Non era, quindi, nelle condizioni di poter stipulare alcun contratto a tempo determinato.
Non corrispondendo al vero, le dichiarazioni pre-assuntive della donna hanno aperto la strada al procedimento disciplinare nei suoi confronti e l’azienda ha contestato le violazioni emerse in modo chiaro e specifico.
Inchiodata dai fatti accertati e senza alcuna possibilità di difendersi, la lavoratrice si è trovata costretta ad ammettere le sue colpe. Irrimediabilmente compromesso il rapporto fiduciario, il datore procedeva al licenziamento per giusta causa.
La sentenza del tribunale: condotta illegale e in malafede
La massima sanzione disciplinare veniva impugnata dalla donna presso il giudice del lavoro territorialmente competente. In aula, il Tribunale di Roma confermava la correttezza della contestazione disciplinare, il rispetto della procedura prevista dalla legge e la decisione adottata dall’azienda.
Per il giudice capitolino, non vi era alcun dubbio sulla duplice responsabilità in gioco. Da un lato, infatti, rileva l’aspetto oggettivo della condotta — il fatto in sé — ma dall’altro spicca anche quello soggettivo, ossia la volontarietà e la gravità della bugia.
Casi come questo sono talmente gravi che non è neppure necessario che il codice disciplinare sia affisso. Quando un comportamento è palesemente illegale, e percepibile come tale perché contrario al minimo etico, a norme penali o ai doveri civilistici, di legge e di contratto collettivo, il lavoratore sa già — o dovrebbe sapere — che quella condotta è vietata.
L’ignoranza e, tanto peggio, la malafede non sono scusabili in alcun modo.
Ecco perché l’eventuale non pubblicazione dei comportamenti vietati e delle sanzioni in un codice aziendale non determina affatto la nullità della sanzione disciplinare, come invece sosteneva la lavoratrice.
Mentire sul curriculum porta sempre al licenziamento
Emettendo la sentenza n. 10463, il giudice del lavoro capitolino è stato molto chiaro. Mentire nel curriculum vitae, indicando corsi mai svolti o titoli di studio, master, specializzazioni o diplomi mai ottenuti, può costare il posto di lavoro. E non conta se il contratto è già stato firmato: l’espulsione è ben giustificata anche molto tempo dopo l’assunzione in azienda.
Casi come quello visto sopra portano sempre all’irreparabile rottura del rapporto di fiducia in azienda. Si tratta di dichiarazioni false che violano i principi di buona fede, lealtà e diligenza racchiusi nel Codice Civile.
Con questa pronuncia, la magistratura ha colto l’occasione per rimarcare alcuni principi fondamentali e validi per una pluralità di casi simili:
- il licenziamento disciplinare può essere inflitto non soltanto per la violazione o l’inadempimento contrattuale in senso stretto (ad esempio il mancato rispetto dell’orario di lavoro o il mancato svolgimento dei compiti assegnati);
- comportamenti precedenti o esterni al contratto e al rapporto di lavoro, possono rendere il lavoratore inaffidabile.
Cosa (non) bisogna scrivere sul curriculum vitae
Ecco allora a che cosa fare attenzione prima di firmare un contratto di lavoro, in piena fase di selezione.
Mai scrivere dati non corrispondenti al vero o non dimostrabili, perché le dichiarazioni false e le bugie (anche lievi), al di là dei possibili risvolti penali, portano sempre all’espulsione dal luogo di lavoro tramite licenziamento disciplinare.
Per evitare brutte sorprese è allora sempre fondamentale fornire informazioni veritiere, corrette e facilmente verificabili, ricordando che la trasparenza nella fase pre-assuntiva è il primo presupposto per instaurare un durevole rapporto di lavoro fondato sulla fiducia reciproca.