I livelli di tensione in Medio Oriente salgono in maniera proporzionale a quelli tra Israele i loro partner di maggioranza, cioè gli Stati Uniti. L’amministrazione Biden è stanca di dover competere su più fronti e vedono quello di Gaza come il meno “utile alla causa” e, al contempo, come il più dannoso.
Dal canto suo il governo Netanyahu è determinato ad avanzare su Rafah, mettendo in serio pericolo sia la stabilità dell’area e i rapporti con l’Egitto sia la potenziale risposta dell’Iran direttamente o tramite le milizie sciite. Proprio l’attacco alla città di confine nel sud della Striscia di Gaza è diventato un dossier primario per Washington, che ha minacciato lo stop delle forniture di armi allo Stato ebraico se l’operazione dovesse essere lanciata su vasta scala.
La decisione degli Usa sulle armi a Israele
Quella americana si configura come una svolta clamorosa, presa durante un conflitto aperto e molto difficile per Israele e che va contro gli interessi di uno dei “protetti di lusso” degli Usa, autentico baluardo per il controllo e la stabilizzazione del Medio e del Vicino Oriente. In un’intervista esclusiva alla Cnn, Joe Biden ha dichiarato per la prima volta di voler stravolgere la dottrina delle forniture militari a Tel Aviv, proseguendo con quelle difensive ma non con quelle offensive se l’esercito israeliano invaderà Rafah. Proprio mentre carri armati, mezzi pesanti e soldati dello Stato ebraico si sono ammassati in un “luogo segreto” della Striscia.
Da mesi ormai gli Stati Uniti si sono detti contrari a un’operazione israeliana di terra contro Rafah, dove sono ammassati quasi un milione e mezzo di civili palestinesi in fuga dalla devastazione e dalla morte portata dallo Stato ebraico nel centro e nel nord della Striscia. Dopo il fallimento dei negoziati per una tregua e lo scambio degli ostaggi e dopo l’ingresso dell’esercito di Israele a Rafah e gli attacchi alla periferia della città, la Casa Bianca ha quindi ribadito la propria posizione. Tel Aviv sembra però inflessibile sul voler controllare Gaza e minacciare nuovamente il Sinai: nella notte sono stati infatti sparati colpi di artiglieria a Rafah, con le Idf che annunciano nuovi attacchi contro “postazioni di Hamas”. Nel denunciare l’ennesimo sfollamento della Striscia, l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi Unrwa riferisce che dal 6 maggio sono fuggiti da Rafah oltre 80mila civili. “Il prezzo da pagare per queste famiglie è insopportabile, nessun posto è sicuro. Abbiamo bisogno di un cessate il fuoco ora”.
La decisione Usa potrebbe così indurre il governo Netanyahu e i vertici militari israeliani a rivedere i piani operativi nella Striscia di Gaza, oppure adottare “un’economia degli armamenti”, e cioè di “risparmiare” le munizioni per evitare di trovarsi senza. A certificare questo scenario è un funzionario israeliano, protetto da anonimato. Secondo un’altra fonte lo scenario futuro sarebbe addirittura inedito, anche se molto difficile: lo Stato ebraico potrebbe anche decidere di rifornirsi militarmente da altri Paesi. L’intransigenza di Israele su Rafah si spiega con la volontà di imporsi sulle condizioni dettate da Hamas nei negoziati per la tregua e di spezzare la presa fondamentalista sulla Striscia, percepita come un fattore umiliante dallo Stato ebraico e preoccupante da tutti quei Paesi che contano sulla protezione e sulla potenza israeliane. Per questo motivo, Tel Aviv non può accettare di ritirarsi militarmente da Gaza, come chiesto da Hamas. E il silenzio o l’inazione apparirebbero come ulteriori segnali di debolezza.
Cosa ha detto Joe Biden sulle armi a Israele e su Rafah
La dichiarazione del presidente americano è giunta dopo la prima sospensione dell’invio di migliaia di bombe statunitensi allo storico alleato. “Continueremo a garantire la sicurezza di Israele in termini di Iron Dome e per la sua capacità di rispondere agli attacchi giunti di recente dal Medio Oriente”, ha precisato Biden. “Ma è semplicemente sbagliato. Non lo faremo, non forniremo armi e proiettili di artiglieria“, ha poi aggiunto, riferendosi allo scenario di una vasta operazione di terra a Rafah. “Ho messo in chiaro che se entrano a Rafah, ma non vi sono ancora entrati, non fornirò le armi”, ha aggiunto.
“Ho detto chiaramente a Bibi (Netanyahu, ndr) e al gabinetto di guerra: non otterranno il nostro sostegno, se effettivamente attaccheranno questi centri abitati”. Il presidente statunitense ha poi spiegato che per il momento le azioni di Israele “non hanno superato questa linea rossa”, anche se hanno causato tensioni crescenti nella regione. “Non sono entrati in centri abitati”, ha sottolineato ancora Biden, riconoscendo che le bombe americane sono state usate dallo Stato ebraico per uccidere civili a Gaza. “Civili sono stati uccisi nella Striscia come conseguenza di quelle bombe e di altri modi in cui attaccano i centri abitati”, ha infine osservato il capo della Casa Bianca, riferendosi agli ordigni da 2.000 libbre (circa mille chili) la cui fornitura è stata sospesa.
La reazione di Israele agli Usa
“Hamas ama Biden”. Se pensavate che un dirigente israeliano non possa dire pubblicamente una cosa del genere, dovrete ricredervi. Perché sono esattamente le parole che ha usato uno dei politici più intransigenti dello Stato ebraico, con tanto di “cuoricino”, pubblicando un post su X: il ministro per la Sicurezza Nazionale e leader della destra radicale, Itamar Ben Gvir. Per lui, come per altri vertici del Paese, Israele deve arrivare a controllare tutta la fascia di territorio tra il Mediterraneo e la Valle del Giordano, dunque compresa la Cisgiordania che si profila sempre più come la “nuova Gaza” in un futuro non troppo lontano. Per cercare di mitigare la crudezza di Ben Gvir è intervenuto il presidente israeliano Isaac Herzog, che ha definito infondate, irresponsabili e offensive” le dichiarazioni del suo ministro.
Ben Gvir non è stato però l’unico dirigente di Tel Aviv a criticare duramente le parole di Biden. Israele “continuerà a combattere Hamas fino alla sua distruzione”, ha affermato il ministro degli Esteri Israel Katz, secondo il quale “non c’è guerra più giusta di questa”. “Commenti molto deludenti, perfino frustranti”, ha dichiarato da parte sua l’ambasciatore israeliano all’Onu Gilad Erdan. “Naturalmente qualsiasi pressione sullo Stato ebraico viene interpretata dai nostri nemici come qualcosa che offre loro speranza di vittoria. Ci sono molti ebrei americani che hanno votato per l’attuale presidente e per il Partito Democratico, e ora sono esitanti”. Un messaggio forte, in vista delle elezioni presidenziali statunitensi di novembre 2024. Il diplomatico ha interpretato la decisione americana come legata al momento difficile vissuto dalla potenza globale: la pressione politica su Biden da parte del Congresso, le proteste nei campus universitari e la minaccia crescente del blocco anti-occidentale. E non è lontano dal vero.