Non tutto è deciso. Con gli Stati Uniti e l’intero Occidente ancora scossi dal ritiro di Joe Biden dalla corsa alla Casa Bianca, l’emotività offusca l’analisi sul futuro della potenza egemone globale. Data per certa già prima della decisione del presidente, e ancora di più dopo l’attentato subìto durante un comizio in Pennsylvania, la vittoria di Donald Trump potrebbe tuttavia essere meno scontata di prima.
Fermo restando che, a differenza di quattro anni fa, gli apparati americani sono ora più orientati a sposare la ricetta repubblicana anche in materia di politica estera, la corsa della (potenziale) candidata democratica Kamala Harris ha sulla carta tempo e ampio spazio per accelerare in vista del voto presidenziale di novembre. Fermo restando che dovrà ancora essere confermata ufficialmente.
I potenziali ostacoli alla corsa di Trump alla Casa Bianca
Il ritiro della candidatura di Biden potrebbe dunque complicare i piani di Trump, nonostante il considerevole vantaggio certificato dagli attuali sondaggi. Il primo ostacolo riguarda la retorica della campagna repubblicana, finora imperniata in gran parte sull’impresentabilità di Joe Biden per motivi di età e capacità mentale. I repubblicani hanno trascorso un’intera settimana di eventi attentamente pianificati, concentrandosi sulle debolezze sbagliate del partito democratico che si opponeva a loro. La campagna Gop aveva finora messo in risalto la forza e la vitalità del suo candidato con entrate a effetto e ospiti macho come l’ex wrestler Hulk Hogan, l’impresario dell’Ultimate Fighting Championship Dana White e la star Kid Rock. Se, com’è quasi certo, Kamala Harris riceverà ufficialmente il testimone del presidente, la linea trumpiana dovrà rivedere totalmente la propria propaganda. L’avvocatessa di Oakland compirà 60 anni proprio a novembre, ribaltando il confronto anagrafico col suo rivale: ora sarà Donald Trump il candidato più anziano.
Oltre che dalla dinamicità e dal fatto di poter diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti, l’appeal di Harris è esercitato anche dalla sua appartenenza a ben due minoranze: afroamericana e indiana. Prima afroamericana e prima asiatica alla vicepresidenza degli Stati Uniti, Kamala Harris potrebbe riportare all’ovile democratico quei gruppi demografici allontanatisi durante gli ultimi mesi bideniani. Spostando il focus su temi molto sentiti soprattutto dalle fasce più giovani, come diritti femminili, Lgbt e aborto.
L’esperienza legale, anche in qualità di ex procuratrice generale della California, porrà poi Harris in posizione autorevole (e non soltanto retorica e politica) per commentare la fedina di Trump, condannato nel processo sul caso della pornostar Stormy Daniels. Prezioso punto di partenza per la vice di Biden, che avrà anche spazio per valorizzare la sua distanza dal programma estremista del suo avversario, avvicinando alla causa democratica la parte moderata dell’elettorato. Secondo gli analisti, la corsa del tycoon risulterà più difficoltosa anche nel caso in cui il Partito Democratico scelga un altro candidato per la Casa Bianca. Con ogni probabilità puntando su curriculum simili o parimenti “vincenti” al confronto con quello di Trump.
I rischi democratici di una candidatura di Kamala Harris
L’ex presidente resta comunque il favorito e, da parte sua, è convinto che l’eventuale sfida con Kamala Harris non cambierà gli equilibri elettorali in vista di novembre. “Penso che lei non sia migliore di lui e potrebbe essere molto meno competente, il che è difficile da credere”, ha dichiarato Trump, definendo la democratica un’esecutrice delle stesse politiche dell’amministrazione Biden, che ritiene impopolari tra gli americani. “Lei era responsabile del confine, la peggiore di sempre. Perché abbiamo avuto il confine peggiore di sempre”. Le parole del tycoon si riferiscono a uno dei fattori di rischio per l’eventuale candidata Harris: la pessima gestione della crisi migratoria alla frontiera col Messico durante la sua vicepresidenza.
Senza dimenticare che Harris si era già candidata nel 2020 per la nomination democratica alla presidenza, registrando un fallimento. Nonostante il suo successo iniziale una serie di interviste maldestre, la mancanza di una visione chiara e una campagna mal gestita l’hanno portata ad abbandonare la corsa ancora prima delle primarie. Per questi motivi procedere ufficialmente con la candidatura di Kamala Harris è un rischio per i dem, che tuttavia appaiono convinti di proseguire su questa strada. Al netto dei rischi di trasformare la convention programmata per il 19-22 agosto in un caos politico, aprendo ai “duelli” tra aspiranti candidati e destabilizzando ulteriormente gli elettori.
Il Partito Democratico ha però l’onere di fare le cose per bene. Cancellare la lista dei potenziali candidati, in favore della sola Harris, porterebbe a un tumulto letale per le speranze di vittoria presidenziale. L’obiettivo è dunque arrivare alla nomination di Kamala Harris attraverso un processo che l’intero partito possa considerare equo. Così facendo, la candidatura della vicepresidente non farebbe che rafforzarsi, contando sul supporto di papabili vice di spessore come i governatori Roy Cooper della Carolina del Nord e Gretchen Whitmer del Michigan.
Perché sostituire Biden sulle schede elettorali non è un problema
Dal disastroso dibattito televisivo del 27 giugno, la credibilità della candidatura di Joe Biden aveva imboccato un piano inclinato. I dubbi sulla salute mentale del presidente lo avevano già bollato come inadatto a proseguire la corsa a un secondo mandato, in un momento storico di profonda stanchezza imperiale degli Stati Uniti e di sovraesposizione su molteplici fronti di crisi. Le gaffe e gli svarioni di Biden avevano gettato nel panico vertici dem, donatori ed elettori, i quali hanno cominciato a chiedere in massa il ritiro dell’81enne candidato. L’aver chiamato “Putin” il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, durante un passaggio di parola al vertice della Nato a Washington, non ha certamente aiutato. Salgono a 25 i deputati che chiedono un passo indietro, con lo staff della campagna elettorale di Biden che però tiene duro. Fino al 21 luglio, quando Biden annuncia a sorpresa il ritiro e tributa il suo endorsement alla candidatura alla presidenza della vice Kamala Harris. Endorsement confermato anche dai 50 presidenti statali del Partito Democratico, dopo che la Harris ha passato più di 10 ore al telefono con oltre 100 leader di partito, membri del Congresso, governatori, dirigenti sindacali e leader di organizzazioni per i diritti civili e di advocacy.
Dal punto di vista tecnico, sostituire il nominativo di Joe Biden sulle schede elettorali non sarà un problema. Negli Stati Uniti è tuttora in corso un acceso dibattito sulla possibilità che i repubblicani riescano a impedire al candidato democratico di comparire sulle schede a novembre. Preoccupazioni vane, poiché le leggi americane sul ballot access, che stabiliscono come i candidati vengono inseriti nelle schede elettorali in ogni Stato, non prevedono alcuna base credibile per impedire a qualsiasi candidato di inserirsi in corsa. Allo stato attuale, non sono neanche trascorse scadenze rilevanti dal punto di vista burocratico. Il partito di Biden rimane perfettamente libero di scegliere il nuovo candidato.
Come funziona la nomina dei candidati alle elezioni Usa
Gran parte del panico generale derivava dalle affermazioni della Heritage Foundation, secondo cui le ambiguità delle leggi elettorali degli Stati avrebbero potuto offrire l’opportunità di contestare l’ufficialità della sostituzione di Biden. Dal punto di vista legale, si tratta di argomentazioni deboli. Gli uffici centrali dem di ogni Stato non sono infatti chiamati a cambiare il nominativo di Biden, semplicemente perché non era ancora il candidato ufficiale del partito. Le primarie dem si tengono tra i mesi di gennaio e agosto 2024, dunque sono tuttora in corso. Il 12 marzo 2024 il presidente aveva raggiunto i delegati necessari per quella che è definita, per l’appunto, “nomination presuntiva” da parte del partito. Niente di definitivo, insomma dal punto di vista tecnico. In ogni Stato Usa, entrambi i partiti hanno diritto a quello che è noto come accesso “automatico” alle schede presidenziali. In altre parole, i candidati non hanno bisogno di raccogliere firme e petizioni o superare altri ostacoli per assicurarsi un posto nella scheda delle elezioni generali.
Per contro, i partiti comunicano alle autorità elettorali dello Stato chi sono i loro candidati. Questo processo non viene mai completato prima della nomina formale da parte della convention nazionale del partito. Nella pratica attuale, nessuno Stato richiede ai partiti di certificare il proprio candidato alla presidenza prima del 21 agosto. Secondo tale meccanismo, Biden non era dunque stato formalmente nominato dal partito per comparire sulla scheda elettorale in nessuno Stato Usa. Non solo: risulta vana anche l’altra preoccupazione dei commentatori politici americani secondo cui i dem potrebbero avere problemi per aver ignorato i risultati delle elezioni primarie. Preoccupazione che però fraintende il ruolo delle elezioni primarie statali nel processo di nomina presidenziale. I partiti non sono infatti tenuti, e né possono essere indotti, a utilizzare le primarie, considerate legalmente un sondaggio non vincolante condotto dai governi dei singoli Stati.
Non è un caso che entrambi i partiti abbiano infatti deciso di ignorare i risultati delle primarie nel 2024. I democratici lo hanno fatto nel New Hampshire, che ha organizzato la tornata “troppo presto e fuori turno” secondo il programma dem. I repubblicani hanno fatto lo stesso in Nevada, rifiutando le primarie a favore di un caucus amministrato dal partito. Ciò non presenta alcun problema legale perché i partiti politici, nel decidere chi nominare e come, esercitano la libertà di parola e associazione garantite dal Primo Emendamento. La Corte Suprema ha confermato che i governi statali non hanno il potere di imporre alcun requisito sulle convention o sulla nomina dei candidati.