Anche il contratto a termine segna l’ingresso nel mondo del lavoro. È questa, in estrema sintesi, la decisione presa dalla Corte di Cassazione attraverso la sentenza numero 40282 del 22 settembre 2021. Un atto che passerà alla storia della giurisprudenza per le innumerevoli ricadute che avrà sulla vita di molti cittadini italiani.
La scelta della Corte riguarda principalmente l’obbligo da parte delle famiglie di mantenere economicamente i propri figli maggiorenni fino al giorno in cui non riescano a ottenere un contratto stabile e ben retribuito. La sentenza dello scorso settembre pone un nuovo limite alla possibilità dei figli di ricevere l’assegno di mantenimento da parte dai genitori.
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Figli “bamboccioni”, la sentenza della Corte di Cassazione
I giudici hanno tracciato una linea che gli addetti ai lavori attendevano da tempo. D’ora in avanti infatti, se la paga è adeguata e l’orizzonte non troppo ristretto, il piede messo nel mondo produttivo da parte dei figli basterà a interrompere l’obbligo da parte del genitore di erogare l’assegno di mantenimento. Questo in quanto un contratto equo e duraturo permette di considerare chi lo sottoscrive come un soggetto autonomo economicamente.
Quanto al rischio che il contratto a tempo determinato non venga rinnovato, si tratta di un pericolo non troppo diverso dalla perdita del lavoro per altre cause che, come si sa, non fa rivivere l’assegno di mantenimento versato dai genitori. La Corte di Cassazione conferma così la linea della fermezza nell’invitare i figli che hanno superato i 18 anni di età a sganciarsi dalla famiglia o, più precisamente, dalla borsa dei genitori (cosa che chiaramente non vale per i minorenni a carico del nucleo famigliare).
Il caso del padre e del figlio assunto al Ministero
Muovendosi su questa linea la Suprema corte ha accolto il ricorso di un padre contro la decisione della Corte d’Appello di confermare l’assegno di mantenimento in favore dei suoi tre figli, tutti maggiorenni. Il ricorrente contestava, in particolare, il versamento in favore dell’unico tra i ragazzi non più studente, ma vincitore di un concorso come volontario al ministero della Difesa con contratto a tempo determinato e rinnovi superiori ad un anno.
Per i giudici di legittimità tanto bastava, a fronte di uno stipendio di circa 1.000 euro al mese, per consentire al padre di non versare più l’assegno. Ad avviso della Corte di Cassazione, i giudici territoriali hanno sbagliato a confermare il mantenimento, valorizzando solo il carattere temporaneo dell’attività lavorativa, ignorando anche la retribuzione.
L’ingresso nel mondo del lavoro è per sempre
La sentenza sancisce questo principio: lo svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, anche se prestata nell’ambito di un contratto a tempo determinato, può costituire “un elemento rappresentativo della capacità dell’interessato di procurarsi una adeguata fonte di reddito” in maniera indipendente. “Ai fini che qui interessano – si legge nel testo emesso dalla Suprema corte – conta, infatti, l’inserimento del figlio in questione nel mondo del lavoro”.
Infine, non sfugge ai giudici la possibile obiezione sull’incertezza dei rinnovi dei contratti a termine. “In tale prospettiva – chiariscono gli ermellini – la possibile cessazione del rapporto lavorativo per la scadenza del termine e il mancato rinnovo del contratto non ha, a ben vedere, un significato diverso dalla perdita dell’occupazione generata da un contratto indeterminato o dal negativo andamento di un’attività intrapresa dal figlio stesso in proprio”. Evenienze che, conclude la Corte, “escludono la reviviscenza dell’obbligo del genitore al mantenimento”.