Il cotone, una delle fibre tessili più antiche e utilizzate al mondo, è al centro di un complesso intreccio di dinamiche economiche e ambientali. Il viaggio nel commercio del cotone ci conduce attraverso campi lontani, fabbriche di sfruttamento e catene di approvvigionamento globali che rivelando impatti nascosti dietro a una semplice T-shirt.
Il report “Quant’acqua sfruttiamo – come il consumo di materie prime minaccia le risorse idriche del pianeta”, condotto da Global 2000 e SERI, ci offre una lente d’ingrandimento sulle problematiche della catena che dal campo alla T-shirt nei negozi impatta sul sistema idrico.
Quant’acqua sfruttiamo?
Il rapporto “Quant’Acqua Sfruttiamo” racconta il nostro rapporto con l’acqua e le materie prime. La prima grande incongruenza che si trova tra i dati e la ricerca stessa è il fatto che abbiamo molti studi a riprova dello sfruttamento eccessivo delle materie prime e dell’acqua, ma pochi o timidi interventi per ridurre il consumo e lo spreco.
È banale dire che l’acqua è un bene necessario in ogni aspetto della vita, meno lo è comprendere come questa sia utilizzata nelle fasi di produzione e realizzazione di molti settori. A oggi circa la metà di tutta l’acqua accessibile all’essere umano e agli animali è destinata alla coltura di prodotti per uso alimentare, alla fornitura di acqua potabile e alla produzione di energia e di altri beni. In Europa, per esempio, quasi la metà di tutta l’acqua prelevata è utilizzata per raffreddare il settore energetico, la restante parte va all’agricoltura, all’approvvigionamento idrico pubblico e all’industria.
Il rapporto è diretto nel confermare che il crescente livello di estrazione di materiali e di acqua è legato allo sviluppo del commercio internazionale degli ultimi decenni. Sono infatti i Paesi industrializzati i maggiori consumatori di acqua:
- un americano medio consuma 7.700 litri d’acqua al giorno e circa 100kg di materiali nello stesso periodo di tempo;
- un cittadino medio africano consuma 3.400 litri di acqua e 11 kg di materiale al giorno.
Le risorse idriche non solo sono sempre più scarse, ma sono limitate, mentre la richiesta continua ad aumentare. Per questo è richiesto ai paesi che consumano più acqua e materiali di ottimizzarne l’estrazione, il mantenimento e l’impiego.
Impatti economici e drici: la faccia oscura di una T-shirt
Tra i diversi esempi riportati dallo studio troviamo il commercio dell’acqua. L’argomento inquadra tutti i beni che richiedono acqua per la loro produzione. Si definiscono anche “prodotti ad alta intensità di acqua”, che a loro volta fanno aumentare il consumo di acqua di un Paese (processo definito come “importazione di acqua virtuale”) e si può riassumere nel concetto più noto di “impronta idrica” (i dati italiani).
Il commercio del cotone è uno di questi. Vitale per molte economie, in particolare nei Paesi “in via di sviluppo”, il commercio di cotone presenta un’impronta idrica rilevante. Basta pensare che una T-shirt di cotone compie un viaggio lunghissimo per il mondo prima di raggiungere i negozi, in particolar modo se di fast fashion. Il cotone, infatti, parte come coltivato in un campo, molto lontano dai nostri Paesi e, tra i vari processi, come raccolta, elaborazione della garza di cotone, la cardatura, la filatura, la tessitura, il candeggio e infine la stampa e il trasporto, si figura una rete di flussi di materiali complessa e articolata.
In numeri: per ottenere 1kg di tessuto di cotone vengono richiesti una media globale di 11.000 litri di acqua, mentre per una tipica T-shirt da negozio si può arrivare ad avere un’impronta idrica di 2.700 litri di acqua.
Nel dettaglio, l’uso dell’acqua all’interno di questo sistema è così suddiviso:
- 45% nell’irrigazione della pianta del cotone;
- 41% acqua piovana evaporata durante il periodo di crescita;
- 14% per diluire il flusso delle acque reflue derivanti da fertilizzanti e prodotti chimici.
Impatti ambientali “lontano dagli occhi”: il caso di Camerun e Togo
L’industria tessile è quasi del tutto scomparsa nei Paesi sviluppati, che hanno invece trasferito le loro grandi fabbriche nelle cosiddette “aree emergenti” e in via di sviluppo. Tra queste figurano l’Asia, ma anche l’Africa. Una delle capitali del cotone si trova in Bangladesh, sul cui territorio risiedono oltre 3.000 fabbriche tessili e nelle quali i lavoratori producono circa 250 T-shirt ogni ora, in condizioni di lavoro di sfruttamento.
Il rapporto “Quant’Acqua Sfruttiamo” evidenzia che la produzione di cotone richiede ingenti quantità di acqua, aggravando la scarsità idrica in molte di queste regioni. Per esempio la coltivazione intensiva di cotone in regioni aride come il Nord Africa e l’Asia centrale ha portato al prosciugamento di bacini idrici e all’inquinamento delle risorse idriche locali a causa dell’uso di pesticidi e fertilizzanti. Come se non bastasse, l’uso intensivo di prodotti chimici nella coltivazione del cotone contribuisce all’inquinamento del suolo e delle falde acquifere, influenzando negativamente la biodiversità e la salute umana. L’impronta ecologica del cotone è ulteriormente aggravata dai processi industriali di trasformazione e produzione tessile, che consumano grandi quantità di energia e risorse.
In generale, nella regione dell’Africa occidentale, dove si produce circa il 5% del cotone grezzo mondiale e il 15% del commercio globale di fibra di cotone, questo materiale rappresenta un bene di esportazione. Eppure i coltivatori restano tra i più poveri al mondo.
In nazioni come il Camerun e il Togo, la coltivazione del cotone è una fonte primaria di reddito per milioni di agricoltori, ma si tratta di un settore che non permette il sostentamento. La maggior parte delle terre coltivate appartiene a piccole aziende a conduzione familiare nelle quali il lavoro minorile e non retribuito è molto diffuso. Infatti, non sarebbe possibile, ci racconta il rapporto, realizzare un profitto per sfamare la propria famiglia senza il coinvolgimento di una manodopera familiare non retribuita. Parte del problema sono i fertilizzanti usati molto costosi e i prezzi mondiali del cotone che nel tempo si sono ridotti all’osso.
La produzione di cotone comporta anche gravi rischi ambientali, oltre che sanitari. La sua produzione, se intensiva, richiede terreni fertili che vanno resi fertili attraverso fertilizzanti minerali, erbicidi e insetticidi. In determinati ambienti, la distribuzione di questi prodotti chimici non è effettuata con norme di sicurezza a cui siamo abituati in Europa.
Se a questo si aggiunge che l’Africa occidentale ha visto l’aumento della coltivazione di cotone mangiare intere zone di foresta, con conseguente scomparsa di biodiversità, l’impatto ambientale e sanitario è più che evidente. Infine, per tornare al tema del consumo idrico, la coltivazione di cotone aumenta il problema dell’accesso alla risorsa idrica, che non solo scarseggia, ma è anche inquinata dall’uso di fertilizzanti chimici e pesticidi.
Un modo per reagire a questo sfruttamento dei terreni e delle popolazioni sarebbe quello di sviluppare infrastrutture, come pozzi, ma anche cliniche e scuole, permettendo agli agricoltori un accesso ai servizi come istruzione e sanità volti a garantire una maggiore consapevolezza nel commercio globale, permettendo loro di inserirsi come attori non svantaggiati e indipendenti. Gli interessi a lungo sono stati altri e forse solo l’attuazione della nuova Direttiva Ue può responsabilizzare alcune di queste grandi aziende nei confronti dei loro partner commerciali.
Strategie per un uso sostenibile: è possibile
Migliorare il nostro consumo di materie prime e di acqua è possibile. L’Europa, in primis, si impegna nel proporre piani di miglioramento come una migliore gestione dei rifiuti, riforme sulla fiscalità ecologica e investimenti per l’innovazione dei materiali e delle industrie che li utilizzano.
Sul consumo dell’acqua molto si sta già tentando. Appare necessario migliorare la gestione dell’acqua coordinando la domanda degli utenti e degli ecosistemi. C’è anche la necessità di innovare i processi industriali affinché consumino sempre meno acqua e arrivino ad avere una pressione ridotta sulle risorse idriche a uso umano e animale.
Un progetto è quello di sfruttare fonti idriche alternative, come la desalinizzazione o il miglioramento delle pratiche di trattamento delle acque grige.
Il rapporto chiude con una richiesta anche ai consumatori, che possono farsi più consapevoli e ridurre i consumi di acqua diretti e indiretti. Per esempio, si può preferire la doccia al bagno, utilizzare regolatori di flusso per i rubinetti o impiegare lavatrici a basso consumo. Un altro metodo è ridurre o evitare il consumo di prodotti che hanno un’elevata impronta idrica, come la carne.
La diminuzione dei livelli di consumo di acqua non è soltanto un impegno per l’ambiente, ma anche per la salute e potrebbe essere un interessante ambito di investimento e quindi un’opportunità economica. L’Europa dipende dalle risorse provenienti dall’estero e questo rende l’unione dei paesi fragile come è accaduto con il gas russo. Imparare a utilizzare al meglio le risorse interne permetterebbe all’Europa di risparmiare sui costi, di diventare competitiva nell’esportazione e di ridurre il proprio impatto ambientale.