Greenhushing, quando il greenwashing entra in crisi: quali sono i rischi

Per evitare sanzioni, le aziende stanno riducendo la comunicazione che riguarda il proprio impegno e i propri risultati in termini di politiche ambientali, sociali e di governance.

Donatella Maisto

Esperta in digital trasformation e tecnologie emergenti

Dopo 20 anni nel legal e hr, si occupa di informazione, ricerca e sviluppo. Esperta in digital transformation, tecnologie emergenti e standard internazionali per la sostenibilità, segue l’Innovation Hub della Camera di Commercio italiana per la Svizzera. MIT Alumni.

Un’altra piccola bufera nel mondo della sostenibilità? JPMorgan Asset Management e State Street Global Advisors hanno entrambi confermato che stanno per lasciare Climate Action 100+, l’iniziativa guidata dagli investitori per garantire che gli emettitori di gas serra aziendali più grandi del mondo intraprendono le misure necessarie sul cambiamento climatico, ma non sono certe le prime aziende negli ultimi mesi. Sono troppe pressioni sulle aziende che virano verso il greenhushing. 

La direttiva breakfast per etichette più trasparenti

Il Parlamento europeo, il 17 gennaio 2024, ha dato il via libera definitivo alla direttiva che migliorerà l’etichettatura dei prodotti e vieterà l’uso di dichiarazioni ambientali fuorvianti. La direttiva mira a:

A chi si applicano le nuove norme

Dal 1° gennaio 2023, inoltre, è entrata in vigore la CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive), la direttiva sul reporting di sostenibilità delle imprese, con cui un maggior numero di aziende dovrà rendicontare le proprie azioni in campo ambientale e sociale.
L’applicazione di queste norme coinvolge le grandi imprese di interesse pubblico con più di 500 dipendenti, e tutte le imprese con più di 250 dipendenti con un fatturato superiore a 40 milioni di euro. Le norme si applicheranno anche a tutte le società quotate sui mercati regolamentati, fatta eccezione per le microimprese.
Le Pmi quotate potranno, invece, scegliere se partecipare in modo facoltativo fino al 2028, anno in cui varrà anche per loro l’obbligo di rendicontazione.

Cos’è il greenhushing

A fronte di quanto oggetto delle direttive o forse ancor più suggestionate e spaventate dal suo contenuto, tra le aziende si registra una nuova tendenza. Per evitare di esporsi al giudizio dell’opinione pubblica e degli stakeholder e per tutelarsi da possibili procedimenti legali le imprese stanno adottando un atteggiamento che si propone come antitetico al greenwashing. Stiamo parlando del greenhushing.
Le aziende impegnate nella sostenibilità tendono sempre più a limitare, se non addirittura a ‍non comunicare, il proprio impegno e i propri risultati in termini di politiche ambientali, sociali e di governance.

‍Comunicare la sostenibilità

Comunicare la sostenibilità per una azienda vuol dire:

Non comunicare la sostenibilità può costituire un grosso limite per il posizionamento sul mercato. Il greenhushing può:

I motivi del greenwashing

‍Le aziende possono avere diverse motivazioni per fare greenhushing. È importante evidenziare che:

Fare greenhushing ha delle conseguenze

Limitando la comunicazione corretta in tema di sostenibilità, le aziende perdono l’opportunità di migliorare la reputazione e la fiducia da parte dei consumatori. Le buone pratiche e i benefici che la sostenibilità può portare in termini di efficienza, risparmio, qualità e differenziazione non emergono come è necessario che sia.
Si raggiunge quasi un paradosso. Si tende a nascondere ciò che potrebbe essere in realtà un punto di forza.
È innegabile che le politiche responsabili adottati da aziende più o meno grandi spesso diventino un modello da seguire per le altre imprese del settore, contribuendo così a creare uno standard migliore per la sostenibilità, come confermano gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) dell’Onu.

Cosa succede negli USA

E’ di pochi giorni fa la notizia, pubblicata da Bloomberg, dell’abbandono da parte di JPMorgan Asset Management e State Street Global Advisors di Climate Action 100+, il più grande gruppo di investitori al mondo nato per combattere il cambiamento climatico.
Secondo Bloomberg i “feroci attacchi repubblicani alle strategie di investimento ambientali, sociali e di governance negli Stati Uniti” hanno spinto queste aziende, come altre, a minimizzare o mascherare i propri sforzi in materia di sostenibilità.
Fino a poco tempo far parte di un gruppo come CA100+ “era un distintivo d’onore, da pubblicizzare con comunicati stampa e nei rapporti aziendali. Oggi, l’adesione è diventata una responsabilità e coloro che non sono mai stati veramente impegnati nella causa sono i primi ad abbandonarla”.
State Street Global Advisors ha dichiarato che il rinnovamento del CA100+ in cui ci si aspetta che i firmatari adottino un approccio più pratico richiedendo alle aziende di “passare dalle parole ai fatti” non è coerente con la posizione prevista dai voti degli azionisti e dall’impegno aziendale. JPMorgan Asset Management ha dichiarato di aver lasciato il gruppo perché ha fatto investimenti significativi per sviluppare un proprio quadro di impegni sul rischio climatico.

Il greenhushing è presente in quasi tutti i principali settori

Secondo il Net Pole Zero Report 2023/2024 condotto da South Pole emerge che:

L’ultimo Net Zero Report annuale di South Pole ha rilevato che la maggior parte delle aziende intervistate in 9 dei 14 principali settori sta intenzionalmente diminuendo le comunicazioni climatiche, come evidenziato per la prima volta nel report pubblicato nel 2022. Il rapporto 2023/2024, che ha interessato oltre 1.400 aziende con lead di sostenibilità dedicati, in 12 paesi e 14 settori, focalizza l’attenzione su chi sceglie di non pubblicizzare le strategie o obiettivi climatici e diminuire deliberatamente o cessare le comunicazioni esterne.

Il rapporto conferma, per la prima volta, che la tendenza del “greenhushing” è presente in quasi tutti i principali settori, in tutto il mondo, dalla moda, alla tecnologia, e FMCG, secondo una nuova ricerca indipendente di South Pole, basata sui dati raccolti dalla società di ricerca britannica Sapio.
C’è una chiara disconnessione tra la convinzione delle aziende nel valore di comunicare i propri obiettivi climatici e la fiducia nel farlo. Tra tutti gli intervistati, la maggior parte delle aziende (81%) afferma di sapere che comunicare il net zero è buono lato profitti, ma oltre la metà (58%) trova più difficile di prima comunicare le proprie azioni e, pertanto, sta deliberatamente pianificando di diminuire il livello di comunicazione esterna sul tema.
Le aziende, tuttavia, vedono gli obiettivi net zero complessivi come centrali per il successo commerciale: quasi la metà (46%) di tutte le aziende intervistate ha dichiarato di perseguire il net zero per soddisfare le richieste dei clienti, ma anche per migliorare la gestione del rischio attraverso le catene di approvvigionamento (39%). Questa tendenza, però, rende la tematica ancora più esacerbante per le aziende.

Ogni settore affronterà o sta già affrontando l’adattamento agli interventi normativi sulla riduzione delle emissioni o sulla sostenibilità e questi cambiamenti nella politica sono citati come uno dei principali driver per cui le aziende sono “greenhushing”. I dati suggeriscono che la maggior parte delle aziende sta lottando così tanto per adattarsi alle nuove normative e ai sistemi di conformità e che non comunicano più le loro strategie e obiettivi climatici con fiducia.
La paura del controllo da parte degli investitori è stata un’altra delle principali ragioni per il “greenhushing”, riscontrabile in modo univoco sia dalla maggior parte delle società di servizi ambientali che da aziende petrolifere e gas company (rispettivamente 51% e 57%). Questi dati potrebbero tranquillamente animare un dibattito su come la pressione degli investitori e gli obiettivi finanziari potrebbe scoraggiare un’azione a lungo termine.
La maggior parte degli altri settori, come la vendita al dettaglio e la moda, la tecnologia, i beni di consumo e i trasporti, hanno elencato tra le varie ragioni che farebbero propendere per il greenhushing, i “requisiti normativi” e “mancanza di linee guida sulle best practice”.

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