“L’industria europea della difesa è frammentata, il che ne limita la dimensione e ostacola l’efficacia operativa sul campo”. E’ questo il giudizio sul tema difesa comune che emerge dal rapporto di Mario Draghi sulla competitività dell’Europa.
Nel rapporto presentato a Bruxelles, Draghi propone un piano ambizioso in 170 punti per risollevare l’economia europea. Il documento tocca tutti i fronti: dalla produttività al clima, dall’inclusione sociale ai singoli settori.
Per digitalizzare, decarbonizzare e rafforzare la difesa, si sottolinea la necessità di investimenti colossali, pari a due Piani Marshall. Nel rapporto si parla in particolare di un maggior coordinamento nella spesa pubblica per l’acquisto di armi e per l’apparato militare che ad oggi risulta “insufficiente nell’attuale contesto geopolitico”. Ma quanto e come spende l’Europa per la difesa comune?
Rapporto Draghi: poche risorse e frammentate
Il documento di Draghi cita i dati del Sipri, secondo cui i paesi Ue nel 2023 hanno impiegato per la spesa militare 313 miliardi di dollari, un terzo di quella degli Stati Uniti (916 miliardi) e di poco superiore alla Cina (296 miliardi).
Stati Uniti a parte, la spesa militare europea è superiore a quella di tanti altri paesi: a partire dalla Russia, con una spesa complessiva di 109 miliardi di dollari (+24% rispetto al 2022), su cui ha influito la guerra con l’Ucraina, la cui spesa è ferma a 64,8 miliardi (+51%).
Secondo l’analisi, solamente dieci Stati membri dell’Unione Europea allocano almeno il 2% del proprio Pil alle spese militari, in linea con gli impegni assunti nell’ambito della Nato nel 2014.
Il raggiungimento di tale soglia da parte degli altri Paesi comporterebbe un incremento annuo delle spese di difesa pari a circa 60 miliardi di euro. A lungo termine, la Commissione Europea stima che saranno necessari investimenti aggiuntivi per un totale di 500 miliardi di euro nei prossimi dieci anni per garantire un adeguato livello di sicurezza e difesa all’interno dell’Unione.
Secondo Draghi, il problema principale dell’Europa si lega agli operatori nazionali del panorama industriale europeo che operano in mercati nazionali relativamente piccoli. Il risultato è un’industria europea della difesa frammentata dalle dimensioni limitate e poco efficace sul campo.
Dipendenza dagli Stati Uniti per le armi e scarsa innovazione
Gli ingenti investimenti iniziali richiesti per la ricerca e lo sviluppo, uniti ai costi non ricorrenti, impediscono alle aziende europee di beneficiare delle economie di scala. Di conseguenza, i prodotti europei, prodotti in quantità limitate, risultano più costosi e meno competitivi rispetto alle controparti americane.
Questa dinamica spiega perché l’Europa si rivolge sempre più agli Stati Uniti per l’acquisto di armamenti. Un’altra debolezza risiede nella minore attenzione dedicata all’innovazione. Se gli Usa infatti hanno investito nel 2023 130 miliardi di euro in ricerca e sviluppo, l’Europa si è fermata a 10,7 miliardi nel 2022.
La mancanza di standardizzazione e interoperabilità degli armamenti, inoltre, ha generato notevoli difficoltà per le forze armate ucraine. Un esempio viene dall’artiglieria da 155 mm, per la quale gli Stati membri hanno fornito ben dieci diversi tipi di obici, complicando enormemente le operazioni sul campo.
Analogamente, la proliferazione di modelli di carri armati (12 in Europa contro uno negli Stati Uniti) e di obici (5 in Europa contro uno negli Usa) testimonia l’incapacità dell’industria europea di offrire soluzioni integrate. Anche nel settore navale, la frammentazione è evidente: il più grande programma europeo costruisce solo il 14% della sua flotta.