Una fiammata e poi il ritorno ai livelli precedenti. È quanto successo venerdì mattina ai prezzi del petrolio, dopo un attacco di Israele all’Iran, che nel corso delle ore successive si è ridimensionato per portata effettiva e potenziali effetti. La convinzione degli esperti sembra essere che l’attacco di venerdì, così come quello di Teheran del weekend precedente, siano stati orchestrati prevalentemente come azioni dimostrative. Tutto ciò sembra riflettersi nei movimenti del petrolio, che ha corso molto prima del lancio di centinaia di droni e missili in un attacco diretto senza precedenti contro Israele il 13 aprile, ma che poi non si è mosso come si poteva aspettare dopo gli attacchi.
Un rally che poggia sulla domanda
Una decina di giorni fa, prima dell’attacco dell’Iran a Israele (arrivato in risposta a un attacco israeliano del 1° aprile contro il complesso dell’ambasciata iraniana in Siria che ha ucciso alti comandanti militari iraniani), i prezzi del greggio Brent sono saliti al massimo degli ultimi 6 mesi, poco più di 90 dollari al barile. Dopo che il mercato petrolifero ha gradualmente scontato prospettive di rialzo della domanda nel primo trimestre, l’aumento del premio per il rischio geopolitico ha alimentato l’ultima tappa del rally.
Premio per il rischio già incorporato
“La modesta risposta del mercato all’attacco ha suggerito però che i prezzi riflettevano già un significativo premio di rischio e che il mercato non ha percepito l’attacco come un’escalation”, hanno fatto notare gli analisti di Goldman Sachs.
La banca d’affari statunitense mantiene il livello psicologico dei 90 dollari al barile sul Brent come un tetto importante, a meno di significativi peggioramenti dello scenario, per tre ragioni principali: L’elevata capacità inutilizzata limita il rischio di rialzo dei prezzi, compresi quelli a lungo termine, e incentiva l’OPEC+ ad aumentare gradualmente la produzione; le scorte commerciali globali sono rimaste stabili negli ultimi 12 mesi; I prezzi stanno già innescando risposte stabilizzanti (le esportazioni di diversi paesi dell’OPEC sono aumentate con prezzi più alti, in linea con la riduzione opportunistica delle scorte”.
Rischi di upside/downside
Guardando a potenziali upside o downside, sul primo fronte viene citata – benché altamente improbabile – un’interruzione dei flussi di petrolio attraverso lo Stretto di Hormuz, attraverso il quale attualmente scorre il 17% della produzione mondiale di petrolio, che porterebbe i prezzi del petrolio ad aumentare del 20% nel primo mese e alla fine raddoppierebbe se l’interruzione persistesse per diversi mesi. Dall’altro lato, una normalizzazione geopolitica abbasserebbe i prezzi di 7,5-12,5 dollari al barile.
Secondo gli analisti di ING, sono invece tre i principali rischi di approvvigionamento che il mercato petrolifero deve affrontare a causa delle attuali tensioni. Questi includono un’applicazione più rigorosa delle sanzioni petrolifere contro l’Iran, la ritorsione di Israele prendendo di mira le infrastrutture energetiche iraniane e lo scenario peggiore – che una significativa escalation alla fine veda l’Iran tentare di bloccare o interrompere i flussi di petrolio attraverso lo Stretto di Hormuz.
“Lo scenario peggiore per il mercato petrolifero sarebbe quello in cui assistessimo ad un’escalation tale da far sì che l’Iran tenti di imporre un blocco attraverso lo Stretto di Hormuz – si legge in una ricerca – Lo Stretto di Hormuz è il punto di strozzatura più importante a livello globale per il commercio di petrolio. Poco più di 20 milioni di barili al giorno di petrolio fluiscono attraverso lo Stretto, con esportazioni dai principali produttori: Arabia Saudita, Iraq, Iran, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar”.
Anche questi esperti ritengono però che la probabilità di un blocco sia bassa, dato che, in primo luogo, sarebbe difficile da imporre, in secondo luogo, non sarebbe nell’interesse dell’Iran e, infine, probabilmente vedrebbe una forte risposta globale.